Un milione alla Diada di Barcellona
Catalogna Tutti ai loro posti per non lasciare spazi vuoti nei sei chilometri della Diagonal per la prima, colorata, festa indipendentista catalana all’epoca del governo socialista di Pedro Sanchez
Catalogna Tutti ai loro posti per non lasciare spazi vuoti nei sei chilometri della Diagonal per la prima, colorata, festa indipendentista catalana all’epoca del governo socialista di Pedro Sanchez
L’hanno fatto di nuovo. Circa un milione di persone – sono dati della Guardia urbana di Barcellona – venute da tutta la Catalogna con 1.500 autobus hanno riempito la Diagonal da Glòries (nei pressi della Sagrada Família, a est) fino a Palau Reial (la punta ovest): circa 6 chilometri di percorso per una strada che misura 50 metri di larghezza. Un tripudio di bandiere catalane, soprattutto estelades, la bandiera indipendentista con le tradizionali strisce gialle e rosse sormontate da una stella gialla su fondo triangolare blu; ma anche molte bandiere catalane senza stella o con la stella rossa, quella socialista. E persino alcuni che portavano la versione Lgbt, dove le strisce gialle e rosse diventano i sei colori della bandiera arcobaleno.
E poi bandiere basche, galiziane, andaluse, o italiane e di altri paesi: tutte in solidarietà con la causa indipendentista catalana. C’erano persino sudtirolesi, col vestito tipico e la loro bandiera. E magliette: soprattutto rosa, la versione «canonica» di quest’anno (ne hanno vendute 270mila), col motto «Facciamo la repubblica catalana», o gialle – colore ormai diventato simbolo di difesa dei prigionieri politici – oltre a quelle delle edizioni degli anni scorsi.
L’organizzazione della manifestazione è ormai rodata: l’Anc (Associazione nazionale catalana), Òmnium cultural e l’Associazione municipi per l’indipendenza (Ami), le tre associazioni che da anni si incaricano di portare in piazza gli indipendentisti duri e puri nel giorno della festa catalana, appunto l’11 settembre, contano su un esercito di volontari per controllare che ciascuno dei 400mila iscritti si disponga nel punto assegnato in maniera da riempire in modo uniforme tutto l’enorme asse urbano della Diagonale. I non iscritti possono aggiungersi, ma l’importante è che nessun tratto rimanga scoperto.
Dopo di che, si aspetta il momento culminante: le 17.14, l’ora simbolica scelta per ricordare la grande sconfitta della città di Barcellona, caduta dopo un lungo assedio, appunto nel 1714, davanti alle truppe borboniche di Filippo V, che si assicurò così la successione al trono dell’infermo Carlo II, morto senza eredi nel 1700. Come una grande sconfitta, e per giunta per difendere gli interessi degli altri pretendenti al trono di Spagna, gli Asburgo, si sia trasformata in festa nazionale è uno di quegli imperscrutabili capricci della storia. Fatto sta che dalla fine dell’Ottocento il nazionalismo catalano ha identificato in questa data il simbolo della lotta identitaria, perché uno dei primi atti del re Filippo fu proprio quello di abolire le istituzioni della corona aragonese – di cui la Catalogna era parte.
Da quando la Catalogna ha di nuovo un governo – l’inizio degli anni ’80 – si scelse questa giornata per celebrare la festa. Fino a qualche anno fa, ci si limitava a portare qualche offerta di fiori al monumento di Rafael Casanova (a capo delle truppe barcellonesi) da parte delle autorità e poco altro. Questa cerimonia istituzionale continua ancora oggi, in mattinata: vi partecipano governo, Parlamento, Comune e partiti. Ma ultimamente non ci vanno né Pp, né Ciudadanos, e neppure la Cup.
«La Diada di oggi è per tutti, e tutti la devono vivere come vogliono e con chi vogliono, ma con democrazia, pace e civismo. Vogliamo che tornino i prigionieri e gli esiliati per risolvere questo conflitto con la politica», ha detto il presidente del Parlament Roger Torrent durante la cerimonia. La portavoce del governo catalano Elsa Artadi ha ricordato la posizione ufficiale indipendentista: «Il Governo legittimo catalano è in prigione o è esiliato». La sindaca Ada Colau ha invece ricordato che è «la festa di tutto il Paese con la sua diversità», ma ha anche voluto sottolineare che «nessun politico dovrebbe stare oggi in carcere».
È però ormai la manifestazione pomeridiana, formalmente organizzata da entità private, ad aver assunto tutto il protagonismo. Se negli anni scorsi il centro della rivendicazione era la richiesta di votare e in generale la difesa al diritto di autodeterminazione che, secondo gli organizzatori, porterebbe dritti dritti all’indipendenza, quest’anno invece gli slogan riguardavano proprio i prigionieri politici: oltre a molti ex ministri e ministre del governo Puigdemont, anche la ex presidente del Parlamento catalano e gli ex presidenti proprio di Anc e Òmnium (i famosi «Jordi», Jordi Cruixart e Jordi Sánchez). Sono in carcere preventivo accusati di reati gravissimi come ribellione e sedizione, che i manifestanti, e in generale il mondo indipendentista, non considera tali.
Il Parlamento catalano approvò un anno fa le leggi considerate incostituzionali dal Tribunale costituzionale e contro il parere degli stessi giuristi del Parlament, e il governo catalano non fermò la celebrazione del referendum l’1 ottobre, mentre il governo spagnolo tentò di impedirlo a manganellate. Per tutti questi fatti sono sotto inchiesta giudiziaria i responsabili politici catalani (ma non quelli spagnoli).
Alla fine della manifestazione, ha parlato fra gli altri, l’avvocato dell’ex ministra Ponsatí, ora al riparo in Scozia, che è arrivato a dire che «il generale Franco sarebbe orgoglioso della Spagna di oggi che si comporta come una dittatura fascista».
Fra i manifestanti, parliamo con Òscar e Gemma, genitori di due bambine, anche loro come molti altri piccoli alla manifestazione, che confessano di essere qui «per tradizione» e perché sono una «colla castellera», i castelli umani tanto tradizionali in Catalogna. «Io voglio un referendum», dice Òscar, «e la libertà per i prigionieri politici». «Forse il governo catalano avrebbe potuto comportarsi diversamente, ma per il dialogo bisogna essere in due», ammette. «Io voglio l’indipendenza», dichiara Gemma. «Prima non eravamo indipendentisti, ma la politica di Madrid di questi anni ci ha fatto cambiare idea. Certo, se avessimo più potere e potessimo gestire i nostri soldi io sarei comunque contenta», aggiunge. Durante la manifestazione, gli slogan urlati sono «Viva la Catalogna libera», «Libertà per i prigionieri politici», «Indipendenza!».
La catarsi collettiva non finisce qui: si preparano mobilitazioni per l’1 ottobre, il giorno del referendum, e per il 27 ottobre, giorno della pseudo dichiarazione di indipendenza. Intanto oggi torna a parlare la politica: nel Congresso si discute la proposta del Pdcat, partito di Puigdemont e dell’attuale president Torra, sui piani di dialogo fra l’esecutivo spagnolo e quello catalano. Sánchez sostiene che il problema in Catalogna è la convivenza, Torra che è invece l’indipendenza. Chissà se riusciranno entrambi a parlare a quella parte dei catalani che non la pensa come loro.
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