Un inventario iniziatico per corpi stregati
59/a Biennale d'arte di Venezia «Il latte dei sogni» di Cecilia Alemani fa deragliare l’immaginario verso storie e creature dimenticate, fra miti ancestrali, tecniche millenarie, incontri fra specie e luoghi remoti
Se c’è un corpo in preda a un’ossessione da sconfinamento, una brama di spazi non concessi, è sicuramente quello mostruoso, che eccede i suoi limiti ibridandosi per assumere su di sé la sapienza di intere comunità di specie viventi. Messa ai margini da una cultura normalizzante, intimorita dal confronto con l’altro perturbante, quell’anomalia in cerca di una metamorfosi «autorizzata» – dopo lo spillover virale che ci ha detronizzati dall’onnipotenza consegnandoci alla fragilità – esce dai libri di fantascienza e si avvia a colonizzare il nostro tempo, segnalando una possibile direzione, fuori dalla dimensione produttiva e funzionale. A volte, lo fa con la malinconia esangue dei replicanti di Blade Runner, altre intessendo ricordi in ricami innevati, impastando in argilla antropomorfe costellazioni famigliari, oppure narrando frammenti di vite invisibili che sfociano in fiabe nere o inseguendo chimere arcaiche.
Così Il latte dei sogni della mostra di Cecilia Alemani goccia copioso su un mondo dimenticato, messo in soffitta, solo in apparenza spostato ai margini che oggi riaffiora sulla soglia incerta fra conscio e inconscio, riprendendosi il centro dell’affabulazione visiva.
«Un nuovo patto si è stretto tra i corpi post-moderni, l’immaginario grottesco e le tecnologie. La marcia dei nuovi soggetti mostruosi è inevitabile», scrive Rosi Braidotti in Madri, mostri, macchine che, non a caso, è una delle stelle più lucenti nella galassia teorica voluta dalla curatrice, insieme alla scrittrice fantasy Ursula LeGuin
E QUEI NUOVI SOGGETTI non sono solo creature artificiali ma comprendono anche un ribollire di leggende, miti e cosmogonie cui la Storia occidentale – quella tramandata per secoli sui tavoli dei vincitori – non ha mai guardato, preferendo insabbiare la «diversità». Sono profondamente fisici, impregnati degli umori di muschi, licheni, alghe, pelli conciate, hanno code «rubate» a un bestiario fantastico, volti marini e squamati, impreviste dita palmate che ispirano ballate d’amore, come insegna il film La forma dell’acqua di Guillermo del Toro.
La rassegna (che rende omaggio nel titolo alle visioni surreali di Leonora Carrington e convoglia a sé una maggioranza schiacciante di nomi dell’universo artistico femminile) affida, nel padiglione Centrale, l’apertura di questo itinerario dal sapore misterico al gigantesco elefante verde fluorescente di Katharina Fritsch (Leone alla carriera per lei, come per la cilena artista e poeta Cecilia Vicuña, vestale degli assemblaggi provvisori ed effimeri, i precarios) e alle Corderie risponde in affinità elettiva una Grande madre nera della cubana Belkis Ayón. Da una parte, c’è «Toni», il pachiderma che nel XIX secolo davvero viveva rinchiuso nel serraglio dei Giardini, ripercorrendo a ritroso una storia minore della Biennale – altro filo dell’esposizione -, dall’altra, la pattuglia compatta delle figure mitiche. Per Ayón, è la principessa Sikán che compare nelle leggende della confraternita segreta afrocubana degli Abakuà.
Sono questi, infatti, i due estremi concettuali, che convergono nella cornice proposta per un difficile incedere verso il futuro: fluidità di innesti fra universi vegetali, minerali, animali e ricorso alla memoria cancellata, soprattutto quella delle civiltà indigene, lo sfruttamento umano con la schiavitù e quello scellerato della terra, che nel percorso espositivo, in più occasioni, si presenta nella sua spoglia e porosa materialità, creando distese di giardini incolti e liberi.
Il rischio di una impostazione che inglobi come unico punto di vista il politically correct è dietro l’angolo, ma Alemani sa scartare dai toni oracolari: evita ogni folklorismo chiedendo uno sforzo culturale e lasciando parlare la prorompente fisicità delle opere. Pittura, scultura e molti collage che mescolano elementi diversi, spesso in matrimoni inediti, sono la costante della sua mostra, anche quando s’inoltra nel territorio minato dei cyborg e dei dispositivi tecnologici: la scienza è altrove, non prende il controllo e strani manufatti robotici, ironici corpi-giocattolo spesso costruiti con reperti industriali, irrompono nella realtà. Va in scena una decolonizzazione dell’immaginario.
TECNICHE TRADIZIONALI e millenarie, linguaggi naïf, forme primigenie, gusci fatati della rinascita prendono il sopravvento. Praterie imbevute di sogni e fantasmi si alternano a genealogie famigliari, mentre artiste cresciute nelle terre ghiacciate, allevando renne (Britta Marakatt-Labba, autrice Sami che ricama planisferi nordici) o vezzeggiando i cani da slitta sbucano d’improvviso in Laguna per affermare le loro nostalgiche lande ai confini della storia, mentre lingue e parole sconosciute si rincorrono.
Agli arazzi ispirati alle «presenze» botaniche dell’indiana Mrinalini Mukherjee (sperimentando l’antica tecnica araba di tessitura a mano del macramé) corrispondono da lontano le arpilleras, i monumentali arazzi filati dalla cantautrice cilena Violeta Parra. Canzoni dipinte le chiama quelle festose scene tessute con mani che affondano nella spiritualità ancestrale (El circo, 1961), richiamando in vita l’arte precolombiana. Ma c’è anche posto per l’inquietudine di un paese disseminato di soprusi. In Combate naval I il vascello Esmeralda timonato dall’eroico capitano Arturo Prat affonda durante la guerra del Pacifico (scoppiata per il controllo dei giacimenti di salnitro) ma sulla nave, fino all’ultimo inabissamento, sventola con orgoglio una bandiera cilena.
A FARE DA CONTRAPPUNTO alle briglie sciolte delle leggende orali e le narrazioni che costituiscono le radici condivise di un popolo, ci sono le «capsule del tempo», vere metamostre che interrompono il discorso come fossero flashback «da sfogliare». Scrigni di incontri e conoscenze, riconnettono gli sfasamenti geografici e culturali, tessendo una mappa sentimentale. La prima, intitolata La culla della strega ha come cuore pulsante Maya Deren e il dualismo tra animato e inanimato. Concepita come una «camera delle meraviglie», è abitata da manichini, bambole, marionette, automi. Sfingi, donne albero, archetipi, rimodellamenti fiabeschi del corpo (anche con derive «mostruose»).
C’è posto anche per celebrare il centenario di una splendida outsider come Mirella Bentivoglio nella capsula «Corpo orbita». Qui la Biennale ricorda se stessa e quella esposizione che volle fortemente la critica e artista, guidata dall’intuizione del profondo legame fra donna e alfabeto: Materializzazione del Linguaggio nel 1978, presso i Magazzini del Sale, fece dialogare ottanta autrici impegnate sul bilico di parola e immagine.
Infine, nelle rare forme di «smaterializzazione» a cui ci ha abituato la rassegna di Alemani, due le installazioni video più poetiche e politiche che intrecciano solitudini e oblio: Sirens di Nan Goldin, omaggio alla modella nera Donyale Luna morta di overdose, con un parallelismo fra estasi stupefacente e canto ammaliatore, e First Rain, Brise-Soleil della vietnamita Thao Nguyen Phan (progetto ancora in corso) che, nella prima parte, racconta la storia di un artigiano khmer, costruttore di strutture frangisole e nella seconda si concentra sulla passione fra una donna e un guaritore all’epoca delle guerre feudali, lasciando fluire le emozioni insieme alle acque del fiume Mekong.
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