Un dialogo ai margini della guerra
Confini di fuoco Un profugo russo e un fuoriuscito ucraino, in età di leva
Confini di fuoco Un profugo russo e un fuoriuscito ucraino, in età di leva
In una cittadina della Turingia, un pomeriggio in un’anonima birreria. Un uomo è seduto al tavolo, un altro si avvicina, saluta e gli siede di fronte. Sono tra i 30 e i 40 anni.
K. Vieni spesso qui? Mi sembra di averti già visto.
S. Abbastanza, ma è difficile incontrare qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere. I tedeschi che capiscono il russo ci sono ancora, ma perlopiù vecchi e diffidenti con i fuoriusciti. Del resto non mi sembra che brucino dalla voglia di sapere cosa ci passa per la testa.
K. Per me anche il russo va bene. Conosciamo entrambe le lingue e ne sono ben felice. Servono tutte e due per comunicare, per imparare suoni e sfumature, per leggere prose e poesie irrinunciabili. Eppure le lingue vengono bandite, contrapposte, perseguitate o, viceversa, imposte come il segno del comando. Non trovi puerile che la lingua parlata da un nemico possa diventare una lingua nemica?
S. Del tutto d’accordo, è un’aberrazione. Per giunta niente affatto spontanea. Nessuno si metterebbe a odiare una lingua se non gli venisse rappresentata come minaccia, come tentacolo di un potere ostile. Ricordo un episodio autobiografico riferito da Jean Amery: ebreo, ricercato dai nazisti, si trovava nascosto dietro una parete fittizia quando gli uomini della Gestapo fecero irruzione nell’appartamento che gli aveva dato riparo. Uno di loro parlava nel dialetto del paese dove Amery era cresciuto. Fu colto allora da nostalgia e un irrazionale desiderio di saltar fuori e abbracciare quell’uomo. Per sua fortuna non lo fece. Nemica non era la lingua, ma il nazista che la parlava. Ad ogni buon conto gli stati nazionalisti trattano ottusamente la lingua come un territorio, da possedere o da sconfiggere.
K. È il metodo migliore per nutrire un’ostilità perenne tra comunità vicine. E poi il «capo» parla una lingua sola, ridotta per giunta a uno stucchevole lessico patriottico. Ma li senti i loro discorsi, non più di poche decine di parole, sempre le stesse, sempre prevedibili e scontate, perché ogni sfumatura equivarrebbe a un cedimento o a un varco per la ragione altrui. Discorsi che ristagnano come il fronte di combattimento. Parole in trincea, logorate come i fanti. Che la banalità sia l’unica forma di espressione dei condottieri e degli eroi? Come esiste un’economia di guerra, una legge di guerra, una statistica di guerra, quella che assicura che il 99 per cento è certo della vittoria, così esiste un linguaggio di guerra, in russo, in ucraino e in tutte le lingue del mondo. Diciamo che in un certo senso è un linguaggio universale.
S. Sì, un linguaggio universale che divide e impedisce di comprendersi. Non è un bel paradosso? Ma in fondo non ci siamo ancora presentati del tutto. Anche se, un russo e un ucraino in età di leva, qui, oggi e non del migliore umore non è poi difficile immaginare chi siano e cosa ci stiano a fare. Ma permettimi una domanda più diretta. Sei un obiettore, un dissidente o semplicemente qualcuno che si rifiuta di spendere la sua vita in una guerra? Tra voi ucraini c’è più varietà che tra noi fuoriusciti russi.
K. Difficile riconoscersi del tutto nelle figure che mi proponi. Certo non voglio imbracciare le armi, ma vorrei anche distogliere altri dal farlo. Dissidente? Non del tutto, ma per nulla convinto della sicumera patriottica. Sono tra quelli che, ragionevolmente, si chiedono se possa esserci una vittoria e, nel caso, di cosa si tratti. Per me, comunque, l’espressione «a qualsiasi prezzo» appartiene al lessico del disumano. Con chi persegue qualcosa «a qualsiasi prezzo» non posso stare. Quanto alla mia vita, no, non intendo spenderla in nessuna guerra. Come vedi non sono un idealista, ma neanche un indifferente. Un miscuglio delle figure che hai elencato. L’esodo dalla guerra, una scelta diffusa di sottrazione è forse ciò che potrebbe, alla fine, sgonfiarne i muscoli. A volte la stanchezza e il disincanto, per fortuna, possono più dell’odio e del furore patriottico. Ad ogni buon conto per sottrarre corpi alla guerra penso che ogni motivazione sia buona, anche la più egoistica e individuale. Ma tu, invece, in quale gruppo ti iscrivi?
S. Direi, per semplificare, un dissidente, un attivista per i diritti civili che non se la passava bene neanche prima della guerra. Un’attività già patetica che il conflitto ha reso del tutto surreale. A Mosca come a Kiev è oggi un tema buono per un pazzo, un autolesionista o un provocatore. Apprezzo dunque la tua posizione realistica e ragionevole. L’insofferenza per la guerra può avere un’estensione ben maggiore del pacifismo politico, anche se in Russia non mancano gli strumenti per blandirla o soffocarla. Un paese sterminato è facilmente più apatico e credulone. Tra noi fuoriusciti i dissidenti non sono pochi così come i renitenti alla leva, gente che ragionevolmente non vuole farsi ammazzare per una striscia di terra a migliaia di chilometri da casa e che della geopolitica non sa cosa farsene. Poi ci sono quelli che nel clima soffocante del paese non ce la fanno più. Eppure, a differenza di voi, anche comprensibilmente direi, non siamo considerati gente che scappa dalla guerra, non ci inseguono bombe e droni assassini, le nostre case non sono state distrutte e bruciate. Insomma, saremmo gente che vuole mettersi comoda. Tuttavia è dalla guerra che fuggiamo, che non è solo la linea del fronte. Siamo profughi di second’ordine, da considerare con diffidenza perché comunque provenienti dall’impero del male. E in ogni modo un ulteriore accollo indebito e molesto. Per noi le porte non sono aperte. Se il mondo occidentale si è chiuso, con isterico furore, alla nostra musica, alla nostra arte, alla nostra letteratura, perché dovrebbe fare diversamente con gli oppositori russi. Meglio lasciarli tra i piedi del Cremlino, piuttosto che offrirgli una valvola di sfogo verso l’Europa. E anche qui il prezzo conta poco. Questa inimicizia assoluta contro tutto ciò che è russo è assolutamente aberrante, qualcosa che avvelenerà a lungo il futuro non meno delle scorie nucleari.
K. Convengo che, come profughi, noi ucraini godiamo di maggiori credenziali, ma in ogni modo, per quello che riguarda noi due renitenti, siamo entrambi disertori e traditori. E qui le parti si rovesciano, poiché io mi sono sottratto all’esercito che si batte per difendere la democrazia e la libertà di tutta Europa, addirittura, mentre tu sei sfuggito all’armata degli oppressori, degli aggressori. Il che dovrebbe essere riconosciuto come un merito. Non ho mai capito perché i disertori russi non venissero accolti a braccia aperte, mentre di noi, per fortuna, non si parla. Probabilmente per non sfatare la leggenda che non c’è ucraino che non sia entusiasta di versare il suo sangue per la patria. E poi, non c’è niente da fare, la figura del disertore resta maledetta, figurati che i tedeschi non hanno ancora riabilitato del tutto quelli della Wehrmacht hitleriana. Il disertore minaccia qualsiasi causa e qualsiasi governo, recide il legame tra governanti e governati. Il suo orrore per la macelleria bellica, o il suo semplice istinto di sopravvivenza, sono la negazione immediatamente pratica della guerra. Radicata in un’antica verità: quelli che le guerre le decidono, non sono mai gli stessi che vanno a combatterle, né quelli che ne pagano i costi e, generalmente, finché non le perdono, non rischiano la pelle. Proprio questa distinzione, prima o poi, porta i conflitti armati a conclusione. Nella migliore delle ipotesi, naturalmente.
S. Certo, di pagare i costi e subire i disagi della guerra a un certo punto nessuno ne può più, soprattutto quando non ci sono margini di compensazione. Ma in Russia chi sta peggio, stava male anche prima delle sanzioni occidentali e i morti, tra i quali non primeggiano i ceti benestanti, solo da alcuni sono attribuiti a una sciagurata guerra di conquista. Per altri sono celebrati come martiri della patria. Ma, attenzione, in occidente tra i fastidi della guerra ci siamo proprio noi, i profughi, soprattutto voi ucraini che siete di più e più bisognosi. Avrai notato che i tedeschi, la gente intendo, che vi avevano accolto con tanto calore cominciano a manifestare qualche insofferenza, e un po’ ovunque si mugugna. Si percepiscono sempre più disagi e malumori. Per non parlare dei neonazisti, quelli veri, che con gli intrusi, perseguitati o meno che siano, vanno piuttosto per le spicce.
K. Eccome se l’ho notato, come ho anche notato che i toni, le sceneggiate e le continue pretese del nostro presidente stanno dando sui nervi a molti in Europa. Le «statistiche di guerra», come al solito, lo certificano fino a un certo punto. L’ossessivo teatro della fermezza sembra quasi dover esorcizzare un dubbio e una debolezza. La classica assertività di chi fatica a credere a quel che dice. Temo che tutto questo si rivolterà presto o tardi contro di noi. L’onore e il diritto che ci viene insistentemente riconosciuto di decidere, noi e solo noi, come, quando e a quali condizioni cominciare a parlare di pace è naturalmente una favoletta, per giunta avvelenata perché il gioco è ben più vasto e popolato di attori assai più potenti del punto di vista ucraino. Il riconoscimento può così facilmente rovesciarsi nell’accusa di far precipitare la situazione per caparbietà, arroganza, presunzione o spirito di vendetta. Sarà l’Ucraina a prendersi la colpa. Tra i nostri due paesi è stato scavato un baratro, ma temo che, anche agli europei finiremo con lo stare sullo stomaco.
S. La verità è che i poveracci, osannati come eroi, spesso mandati a combattere a calci nel sedere, non contano assolutamente niente. Come noi del resto. Non ci sono ammutinamenti tra i soldati spediti al massacro, tutt’al più imboscati o gente che se la da a gambe e non saranno gli oppositori e i dissidenti a scuotere gli assetti di potere. Figurati, non siamo nel ’17, e questa non è neanche una guerra in diritto di chiamarsi tale. Allora, almeno, oltre la geopolitica, c’era una rivoluzione. Oggi il basso è manovrato da un alto talmente alto che nessuno lo può afferrare. Oltre qualunque ragione o principio di diritto internazionale. C’è solo da sperare che in quelle sfere dove nessuna democrazia ha cittadinanza, dove l’opacità e il segreto sono la sola regola, persista abbastanza capacità di controllo da impedire che la dinamica della guerra si autonomizzi del tutto, liberando l’immenso potenziale di distruzione di cui la abbiamo dotata. Non ti colpisce il fatto che per la prima volta siano proprio i militari ad essere più trattenuti e prudenti dei governanti infervorati dalla retorica bellicista?
K. Mah, non ci contare troppo! Quel che vedo è che comunque saremo noi a pagare il prezzo più alto. Gran fregatura quando finisci eletto campione di uno schieramento e investito di presunti compiti «storici» a favore di tutta l’umanità. E ci credi pure. Voi vi stanno imbrogliando nel modo opposto. Con quella ridicola definizione di «operazione militare speciale» con cui hanno battezzato l’invasione banalizzano la portata della guerra a una questione di sicurezza nazionale, secondo una naturalità storica e geografica di comodo. Certo che ci sono aggressori e aggrediti, ma tra gli uni e tra gli altri c’è chi ci guadagna e chi ci rimette, chi crepa e chi sventola bandiere, chi patisce la fame e chi specula. E noi, non certo innocenti, che stiamo a guardare. Intanto, compagno aggressore, ordiniamo altre due birre?
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