Un bar sul confine
Le storie dei migranti che dalla Slovenia cercano di entrare in Italia nei commenti degli avventori di un locale pubblico di Trieste
Le storie dei migranti che dalla Slovenia cercano di entrare in Italia nei commenti degli avventori di un locale pubblico di Trieste
I tronchi sottili dei carpini nella prima luce del giorno, silenzio, solo qualche fruscio tra le robinie. La strada asfaltata, scivolosa in questi strani giorni di nebbia, è un lungo saliscendi sul fianco del monte. Lassù la Slovenia si affaccia sulla piana che mano a mano si infittisce di case: si vede Trieste, bianca, a far da corona a un mare lattiginoso che sembra confondersi con il cielo grigio. Cinque ragazzi scendono guardinghi lungo il margine della strada. Infagottati, bagnati fradici, hanno i tratti olivastri degli afgani o dei pachistani, chissà.
LA SLOVENIA ha messo in campo un vasto programma di intercettazione del traffico clandestino e già centinaia di passeur sono ospiti delle poche carceri slovene. Un migliaio di euro per un passaggio attraverso la Repubblica fino al confine con l’Italia. In un paio di occasioni la polizia slovena ha rincorso qualche furgone fin dentro il confine italiano e ci sono stati fermi rocamboleschi nella prima periferia di Trieste. Poi le pattuglie miste italo-slovene che percorrono i sentieri e la pratica illegale delle riammissioni informali che sono il modo burocratico per dire che qui non si passa, che ogni migrante deve rimbalzare indietro fino alla Bosnia, senza tutele, senza diritti. Questi cinque sembrano arrivati da soli, lontano dalle strade principali, attraverso il bosco. Finita la discesa c’è il paese. La scuola elementare, la caserma dei Carabinieri, il monumento ai partigiani… E’ mattina, un piccolo viavai di persone si ritrova nella piazza fino al bar che ha appena sfornato pane e strudel e comincia a servire caffè e cappuccini.
NEL BAR PARLANO tutti sloveno perché i Comuni intorno a Trieste raccolgono la maggior parte della comunità slovena, ma basta dire «buongiorno» invece di «doberdan» perché tutti passino all’italiano. Hanno visto quei cinque ragazzi passare. «E’ normale, normalissimo, almeno in estate; in questi giorni è strano, era da un po’ che non se ne vedevano. Attraversare i Balcani è diventata un’impresa quasi impossibile. Passano da sempre, qui: questo confine ha visto persone arrivare attraverso i sentieri per decine di anni».
«Prima di entrare in paese si cambiano, si trovano tanti abiti tra i cespugli» dice uno scuotendo la testa. Si aggiunge un giovane con i ricci biondi: «Probabilmente vogliono presentarsi in città in ordine, più puliti, più presentabili» e ha negli occhi un’ombra di malinconica emozione. E’ questione di percezione, si sa, ma comunque così splendidamente lontana dai commenti rabbiosi che compaiono sotto alcuni post dei quotidiani cittadini a proposito del Carso «pieno di stracci buttati, un vero immondezzaio». Il ragazzo biondo ha le idee chiare: «Questa storia dei clandestini è stata ampiamente strumentalizzata, solo il covid è riuscito a spostare l’attenzione e, infatti, non se ne parla più. E’ che la nostra società ha smesso di vedere un futuro, non lo sa immaginare e non lo affronta. L’emergenza climatica, non soltanto i conflitti, significano migrazioni imponenti, eppure facciamo gli struzzi, nemmeno ne parliamo. Muri e soldati. Che modo miope di affrontare la realtà!». Su tratte sempre più pericolose e con modalità presumibilmente sempre più irregolari, comunque dal cul de sac balcanico riesce a filtrare qualcuno che arriva poi ai nostri confini.
«NON È UN PROBLEMA per la gente di questo paese» continua il giovane biondo «Magari adesso qualcuno chiude la porta a chiave – e fino a ieri qui non si faceva – ma è un fatto soggettivo e io credo sia insicurezza indotta».
«Qua ci sono sempre meno giovani» aggiunge un anziano mentre aggiunge zucchero al suo caffè. «Sembra che non ci si renda conto che abbiamo bisogno di forze nuove, di forza lavoro nuova». La moglie ride e strizza l’occhio alla barista: «Con ‘sti uomini desolanti che ci ritroviamo… abbiamo bisogno anche di sangue nuovo!» ma il marito continua a seguire il suo ragionamento: «Pensa in Ungheria, che ridicoli, non passa un immigrato che sia uno e poi hanno gli straordinari obbligatori!».
«Questa continua istigazione alla paura, questo respingere con cattiveria, portano all’incattivimento» la signora con i capelli rossi è seria: «Cosa si vuole ottenere lasciando la gente per strada? Siano migranti o sfrattati o chi. Senza dare loro una alternativa alla strada li si destina alla brutalità, al crimine, per non parlare dei traumi psicologici. E’ di questo che dovremmo avere paura». Si susseguono storie, piccoli aneddoti di un quotidiano che gode ancora dei ritmi della campagna, che vive le stagioni, che non corre frenetico. I cinque ragazzi scesi dal bosco sono fermi sotto la tettoia della fermata dell’autobus. «Qualche volta si infilano in strade secondarie, sbagliano, e così li vediamo tra i capannoni della zona industriale» dice un uomo con gli scarponi da lavoro bianchi di cemento. «Una ragazza dell’amministrazione ne ha trovati due, un paio di settimane fa. Hanno parlato un poco, in un inglese stentato, volevano arrivare in Questura. E’ finita che gli ha regalato un biglietto pluricorse per il bus. Cos’altro poteva fare? Ma non sono tutti così: la maggioranza degli operai li guarda storto o fa finta di non vederli». La barista ricompare con un vassoio di kranz, profumo di sfoglia e di marmellata: «Devo dire qualcosa? Sono molto più disturbata dai cinghiali. Quelli sì che fanno danni».
DALLA STRADA, fuori, scende lentamente una Volante della polizia. Era salita fino all’ultimo gruppo di case per recuperare il collega alla fine del turno sul ciglione roccioso che si alza di 350 metri sopra la pianura. Le pattuglie percorrono i boschi: due poliziotti sloveni e uno italiano cercano i migranti, proprio a cavallo del confine dove, a metà degli anni ’50, i granicari jugoslavi erano pronti a sparare per fermare chi cercava di passare. Il terreno è accidentato, scivoloso, pieno di rovi e fenditure rocciose: non è facile fermare qualcuno e, avvistata la pattuglia in divisa, i migranti scappano veloci. Poi finisce che qualcuno ci muore, e chissà di quanti non sappiamo nulla, come Bendisari Sidahmed precipitato in un dirupo la notte di Capodanno dell’anno scorso o la bambina annegata un mese fa mentre cercava di guadare, aggrappata alla madre, la corrente del Dragogna. E poi ci sono quelli rinchiusi al CPR di Gradisca, in attesa non si sa bene di quale rimpatrio, dove si continua a morire e non c’è mai una spiegazione.
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