Visioni

Un angelo in volo nell’Ungheria che spara sui migranti

Un angelo in volo nell’Ungheria che spara sui migranti

Al cinema «Una luna chiamata Europa», il film di Kornel Mundruczo. Storia sui rifugiati fra realismo magico, poliziesco e sperimentazione

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 12 luglio 2018

Si ha l’impressione di vivere nuove esperienze visive con i film di Kornel Mundruczo: così era stato per White Dog (2014), vincitore a Cannes al Certain Regard, una possente parabola metropolitana su dolore e reazione con la presenza minacciosa di 250 cani, in risposta alla legge che voleva eliminarli. Si prova la stessa sensazione con Una luna chiamata Europa (Jupiter’s Moon, in concorso a Cannes l’anno scorso)  che sembra indicare il «pianeta Europa» come fosse la luna di Giove probabilmente abitabile dal genere umano, con molto lavoro da fare ancora perché l’umanità abbia senso.

Il film a un primo livello di lettura riunisce diverse anime del cinema ungherese, cosa che sembra rassicurante, poi le strade si intrecciano e prendono tangenti inaspettate e spiazzanti.
Film sui rifugiati, sperimentazione, poliziesco, perfino certi elementi buffoneschi che farebbero pensare agli ultimi film di Jancso. Senza dimenticare che la tradizione dei film polizieschi in Ungheria andava di pari passo con la denuncia sociale e politica: la polizia era sempre presente nei film politici durante gli anni 80.

Protagonista è Stern, un medico dei rifugiati, interpretato da uno dei più grandi attori europei, Merad Ninidze. Assomiglia ai detective di Hammett, stropicciato, incline alle scorciatoie morali, come farsi dare soldi dagli immigrati per farli fuggire. Deve infatti procurarsi un mucchio di denaro per risarcire i familiari di un atleta famoso che aveva operato in stato di ubriachezza, morto sotto i ferri.
Alui si contrappone ferocemente il poliziotto Laslo (Gyorgy Cserhalmy) che inevitabilmente ci riporta ai tempi e ai metodi dell’epoca comunista. Ma questo è solo un livello del film perché proprio nell’incipit i rifugiati arrivano come da un altro mondo ignoto, una grigia Ungheria pronta a sparare su quegli sconosciuti. Planano nell’acqua come nello spazio astrale e il giovane siriano Aryaan (Zsombor Jeger al suo esordio) è colpito a morte ma rinato a nuova vita, resurrezione, mistero, miracolo, presenza ultraterrena. Assume le proprietà della levitazione, può sollevarsi in aria e ridiscendere, ma diventare anche un angelo sterminatore.

Un elemento che non incide sullo stato delle cose: continuano le persecuzioni, la vita quotidiana, ma Stern lo adotta per farci un sacco di soldi come fosse una inedita cura, e comincia a sentire in lui la presenza angelica, così innocente e ingenuo, qualcosa che lo deve costringere a guardare in alto, a trovare pace, oltre la grigia e violenta realtà quotidiana, in un’Ungheria colta anche nei suoi aspetti pop vintage.

Un film condotto con vera maestria anche negli spiazzamenti, nei cambiamenti di tono, ottovolante del cinema. Ci sarà anche chi non vorrà salire per paura delle ripide discese. Che in qualche modo si tratti della continuazione di White Dog, che ne sviluppi la trama lo conferma il regista. Che sia un atto d’accusa nei confronti del suo paese lo nega: «Il mio paese appartiene all’Europa, dove in questo momento c’è molto isterismo e follia e la gente cerca risposte. Abbiamo tutti gli stessi problemi e dobbiamo risolverli insieme. Il caos regna in Europa, ma si può trasformare questa situazione, tutto cambia attraverso il volo, bisogna guardare in direzioni non convenzionali, verso il cielo».

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