La normalizzazione dei rapporti tra governo e opposizioni in Venezuela non sembra più così lontana. E, di conseguenza, neppure quella tra il governo Maduro e gli Stati uniti.

Alla vigilia delle tormentate primarie delle forze di opposizione in programma domenica, e a poco meno di un anno dall’avvio del dialogo aperto nell’aprile del 2021 a Città del Messico (poi interrotto alla fine del 2022 per gli irrisolti contrasti con gli Stati uniti), il governo del presidente Maduro e i principali partiti di opposizione riuniti nella

Piattaforma unitaria hanno firmato martedì scorso a Bridgetown, capitale delle Barbados, due accordi parziali: sulle garanzie elettorali e la promozione dei diritti politici da un lato e sulla protezione degli interessi vitali della nazione dall’altro.

SE QUEST’ULTIMO RIBADISCE i diritti storici del Venezuela sulla regione dell’Esequibo, ricchissima di giacimenti petroliferi, su cui è in corso un’accesa disputa territoriale con la Guyana, e la difesa della proprietà della Citgo, la filiale della compagnia petrolifera statale Pdvsa espropriata illegalmente dagli Usa, è il primo accordo quello che racchiude le maggiori novità. Governo e opposizioni hanno infatti trovato un’intesa, tra l’altro, sulla realizzazione delle presidenziali nel secondo semestre del 2024, sull’attualizzazione del Registro elettorale e sull’apertura alle missioni di osservatori internazionali dell’Unione europea, delle Nazioni unite, dell’Unione africana e del Centro Carter, stabilendo inoltre quella che a prima vista potrebbe apparire un’ovvietà: che, cioè, le parti «riconoscono e rispettano il diritto di ogni attore politico» a selezionare «in modo libero» il proprio candidato presidenziale, nel rispetto di «quanto stabilito nella Costituzione e nella legge».

UNA FORMULAZIONE che lascia ancora irrisolto il punto chiave delle canditature di quegli esponenti di destra dichiarati dalla giustizia ineleggibili, a partire dalla candidata data per favorita dai sondaggi: la leader del partito di destra Vente Venezuela, María Corina Machado, distintasi in passato per aver preso parte alle violente proteste anti-chaviste del 2014 e del 2017 (le cosiddette guarimbas), per aver sostenuto la farsa del governo ad interim di Juan Guaidó e per aver sollecitato l’intervento straniero contro il suo paese. E se, incurante dell’ineleggibilità, ha deciso comunque di candidarsi alle primarie di domenica, sicura di vincerle a mani basse, ha avuto, non a caso, parole molto critiche nei confronti dell’accordo: «Il testo – ha denunciato sui social – non dà certezze ai venezuelani, poiché non specifica le azioni o le scadenze concrete fino al 2024».

MALGRADO LE LACUNE dell’accordo – del resto definito «parziale» -, gli Stati uniti hanno espresso apprezzamento e agito di conseguenza, annunciando mercoledì un allentamento delle sanzioni: «Il Dipartimento del Tesoro ha autorizzato transazioni con il Venezuela nel settore del petrolio e del gas, oltre che in quello dell’oro», ha affermato in un comunicato stampa Brian Nelson, sottosegretario al Tesoro per il terrorismo e l’intelligence finanziaria.

Un’autorizzazione per l’acquisto di petrolio e gas venezuelani valida per un periodo di sei mesi ma rinnovabile, a condizione, certo, che il paese rispetti «gli impegni presi riguardo alle elezioni e ai detenuti». Fumata nera invece sul congelamento dei beni venezuelani: un tema ritenuto di fondamentale importanza dal presidente Maduro. Ma per il suo governo – oggetto di una profonda disaffezione da parte del popolo, anche di quello di sinistra – si tratta comunque di una bella boccata di ossigeno.