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Umanità zero sulla frontiera

Umanità zero sulla frontieraProfughi haitiani a Tijuana – LaPresse

Reportage Nella «Piccola Haiti» di Tijuana, tra i migranti in fuga da mali emisferici con cui gli Stati uniti, la loro meta finale, hanno molto a che vedere. Al di là del confine rischiano di finire in una gabbia metallica a El Paso. Grazie alla Casa bianca sovranista che preferisce tenere alto il livello simbolico dello scontro, anziché risolvere il problema

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 3 aprile 2019

L’appuntamento è per le 10 davanti ai locali dei Border Angels, un’associazione che coordina iniziative a favore dei migranti. Oggi, come ogni altro sabato, organizza una spedizione per portare provviste ai campi profughi oltreconfine, a Tijuana. Questo soleggiato sabato mattina all’indirizzo di San Diego si sono presentate una ventina di persone arrivate in macchine cariche di vestiti, giocattoli, scatole di viveri, articoli per l’igiene. In gran parte sono giovani, in prevalenza donne: hanno raccolto l’appello online e sono venuti, spinti dal desiderio di incidere in qualche modo sulla crisi al confine, 20 km più a sud.

E QUESTA FRONTIERA dolorante, da sempre volatile, dopo due anni di amministrazione trumpista è vicina al caos. Il presidente, che sulla criminalizzazione degli immigrati ha costruito la propria fortuna politica, da mesi denuncia «l’emergenza nazionale» e invoca la necessità di costruire un muro per arginare «l’invasione». Come per le sue controparti sovraniste in tutto il mondo, la narrazione apocalittica è utile soprattutto a compattare di consenso di base attorno al panico e la paranoia xenofoba.

A questo scopo sono state mobilitate le truppe (accampate per qualche settimana nelle retrovie senza maggiore mansione che srotolare il filo spinato), sottratti figli ai genitori e sospeso l’asilo politico. Quasi ogni iniziativa è andata incontro a ricorsi legali mentre gli immigranti – in gruppi, famiglie e carovane – sono continuati ad arrivare sul confine. Per assicurare l’escalation della psicosi, Trump ha dichiarato la sua emergenza, anche se si tratta di una profezia palesemente auto avverante. Di fatto non c’è la «minaccia esistenziale» di cui il presidente continua a parlare; ci sono invece le prevedibili dinamiche di un confine che separa nettamente primo e terzo mondo, ingigantendo, non da oggi, disuguaglianze, ataviche ingiustizie e soprusi storici.

CLINTON HA INIZIATO a fortificare il confine negli anni 90, Bush ha raddoppiato il numero degli agenti di frontiera, Obama ha implementato le deportazioni di massa. Ma il sovranismo identitario di Trump ha criminalizzato il concetto stesso di immigrazione usandolo come grimaldello per attizzare il popolo dei fedelissimi con lo spauracchio della «sostituzione etnica». Come per i suoi suprematisti nel mondo, la sua preoccupazione è mantenere alto il livello di scontro simbolico, non risolvere il problema.
A febbraio le autorità di confine hanno preso in consegna 76.000 persone, a marzo sono stati quasi 100.000. Non sono ancora i picchi storici dell’inizio degli anni 2000 ma comunque numeri notevoli anche per una frontiera da sempre attraversata da flussi migratori verso nord. Quello che ora è cambiato è l’identità dei migranti: al posto degli uomini, prevalentemente messicani, diretti da sempre a posti di sotto lavoro nell’economia americana, ora arrivano più donne e bambini, nuclei famigliari in fuga dalla violenza endemica specie nei paesi centroamericani nella morsa di una povertà cronica e sempre più di una criminalità organizzata, limitrofa alla corruzione e al malgoverno. Da un anno a questa parte sono cominciati ad arrivare su questa linea le «carovane», manifestazione di una fuga di massa da mali emisferici con cui gli Stati uniti – storici «padroni latifondisti» del «cortile di casa» centramericano – hanno non poco a che vedere.

 

Dialogo tra parenti sui due lati del confine, a Tijuana (foto di Luca Celada)

 

Di fronte a questo esodo crescente il governo che sta apertamente destabilizzando il Venezuela, che tre anni fa ha sostenuto il golpe in Honduras e ha esportato la banda criminale MS13 in El Salvador, ha adottato il pugno di ferro. «Ragazzi, ve lo dico subito. Se non collaborano, quel dannato confine lo sigilliamo!» ha esclamato nuovamente il presidente nel comizio di giovedì scorso in Michigan, una minaccia ben collaudata che ha provocato l’ovazione dei sostenitori. In quello stesso momento oltre mille profughi – molti bambini – rimanevano detenuti all’addiaccio in un recinto metallico sotto ad un cavalcavia di El Paso, una prigione di fortuna che va ad arricchire la sinistra iconografia di questa era sovranista.

SE EMERGENZA C’È non è quella artefatta di Trump, ma una catastrofe umanitaria. La politica della crudeltà trasforma famiglie e i bambini in fuga in figuranti nella rappresentazione delle orde barbariche. «Vengono qui a chiedere asilo – con quegli avvocati che gli insegano le frasi fatte… a chi credono di darla a bere con le loro storie di paura!?» ha ripetuto Trump, che dopo aver dipinto gli immigrati come stupratori è passato a a demonizzare i richiedenti asilo. Le sue disposizioni alla zelante direttrice di Homeland Security , Kirstjen Nielsen, prevedono che le domande vengano accettate ora solo col contagocce, creando ritardi di settimane e mesi.

A TIJUANA ai richiedenti viene assegnato un numero col quale ci si deve presentare ogni giorno nella speranza di essere fra la dozzina di quelli chiamati. Con l’arrivo di successive carovane si è cosi venuta a creare un’enorme popolazione dislocata e senza fissa dimora che vive nel limbo dell’attesa, in una città dalle risorse certo non abbondanti e dal tasso record di criminalità. Come sulle sponde sanguinanti del Mediterraneo il progetto è di normalizzare i profughi permanenti, senza prospettive per l’integrazione né da un lato del confine né dall’altro. La rimozione fisica dei rifugiati con la deportazione o l’interdizione, l’azzeramento della loro umanità, è parte di un disegno eugenetico nel nome – proprio come in Europa – della difesa dell’identità culturale, un concetto paradossale nel territorio bilingue e meticcio che è il Sudovest degli Stati uniti.

NELLE CITTÀ MESSICANE di confine migliaia di famiglie giunte qui dopo una marcia di 2000 km, vivono senza casa ne lavoro, costrette in alloggi di fortuna in uno dei numerosi campi profughi operati da associazioni volontarie o religiose come quello della Iglesia Emabajadores de Jésus. Per raggiungerlo ci si deve inoltrare su una strada sterrata e dissestata nel Cañon del Alacrán, schivando le galline e i maiali che ruzzolano nell’abbondante rumenta e fra i rivoli di liquame. Il quartiere si chiama Divina Providencia ma è poco più di una favela che si arrampica nei calanchi dell’entroterra periferico di Tijuana. Qui, dove la strada senza uscita si trasforma in letto di torrente adibito a discarica, il pastore evangelico Gustavo Banda, ha iniziato con l’accogliere profughi haitiani nella propria parrocchia. Oggi nelle tende sistemate sul pavimento di cemento, alloggiano circa 200 migranti provenienti da Guatemala e Honduras ma anche dalla provincia messicane di Oaxaca oltre che da Cuba e Haiti. Gli haitiani sono cominciati ad arrivare nel 2010, in transito verso gli Usa che dopo il terremoto di quell’anno concedeva visti agevolati.

 

(foto di Luca Celada)

 

Con il giro di vite, molti sono stati costretti a stabilirsi in questa città e attorno alla parrocchia è sorto un villaggio di capanne denominato Pequeña Haiti, «Piccola Haiti». Ma gli haitiani – come i cubani – continuano ad arrivare, molti caraibici, spiega Banda, ora provengono dal Venezuela, dove erano stati accolti in un primo tempo, a causa della crisi in quel paese.

ATTORNO ALLA PARROCCHIA e alle capanne di compensato costruite dai profughi, volteggiano turme di bambini. Alcune donne aspettano il turno all’unico rubinetto per lavare i panni. «Non riceviamo alcun aiuto dal governo. Semmai ricevo minacce di morte», spiega Banda che ha spesso polemizzato con Juan Manuel Gastélum, il sindaco di Tijuana che è schierato col movimento anti immigrati sorto anche in questa città.

Ed è ambiguo anche il ruolo del governo di Andrés Manuel Lopez Obrador, il presidente «populista di sinistra» sembra quantomeno essere sceso a compromessi con Trump. Per scoraggiare nuove richieste di asilo infatti è stato introdotto il concetto di «attesa in Messico». Una volta iniziata la pratica i richiedenti saranno tenuti ad attendere l’esito in Messico. Allo stesso tempo è però necessario avvalersi di un avvocato americano – che non è autorizzato a lavorare in Messico. Un diabolico comma 22 che ha generato ulteriore caos.

Questo non ha impedito al presidente Usa di continuare a vomitare minacce sul Messico, reo secondo lui di fomentare gli immigrati e di «guadagnare da sempre miliardi sulla nostra pelle». La politica apertamente xenofoba si mescola con lo sbando che caratterizza l’amministrazione di Trump.

VENERDÌ SCORSO il ministro Nielsen ha incontrato i leader di Honduras, Guatemala ed El Salvador in un mini summit a Tegucigalpa al termine del quale è stato annunciato uno memorandum di cooperazione per arginare «l’emigrazione all’origine» mediante il classico modello di sovvenzioni repressivi a governi amici. Non sono però passate nemmeno 24 ore prima che Trump mettesse clamorosamente in fuorigioco i suoi stessi portavoce proclamando su Twitter la decisione di «tagliare tutti i fondi» ai paesi centroamericani. Fuori da ogni considerazione naturalmente ogni misura volta a incidere sulle cause prime dell’emigrazione: povertà, sfruttamento e iniquità dei governi sostenuti dagli Usa. Unico dato costante la rimozione dell’abisso fra benessere e sofferenza e delle cause storiche che sottendono il fenomeno delle migrazioni globali.

 

Campo di detenzione improvvisato a El Paso, Texas

 

PER I MIGRANTI che riescono a passare, intanto, consegnandosi alle autorità si spalancano le porte di un arcipelago kafkiano di tribunali e penitenziari, in gran parte privati, a cui è appaltata la carcerazione degli immigrati che possono essere detenuti a tempo indeterminato senza diritto a udienza o accesso a legali. In questo gulag opaco si stimano ancora in diverse centinaia i bambini sottratti ai genitori, detenuti in black sites o assegnati a famiglie sparse per l’America e divenuti «irreperibili» quindi non ricongiungibili ai genitori (molti già deportati nei paesi di origine). Continuano a trapelare notizie orrifiche di bambini di 5-7 anni portati in tribunale costretti a rispondere da soli alle domande di un giudice, famiglie e minori lasciati a dormire in terra senza suppellettili in locali tenuti di proposito freddissimi – presto divenuti noti come hieleras fra i malcapitati ospiti – dell’uso di psicofarmaci per mantenere docili i detenuti. Del furto sistematico di ogni umanità che è un altro dato comune dei regimi nazional populisti.

 

Attendati nella parrocchia del pastore evangelico Gustavo Banda, nel quartiere Divina Providencia (foto LaPresse)

 

L’ACCAMPAMENTO della Piccola Haiti rappresenta la fallacia di una politica fondata sulla falsa distinzione fra profughi politici ed economici. Il giorno che ci passiamo i bambini si tuffano su un carico di giocattoli portati dagli Angels. Dopo la divisione sommaria, si avvicina Alejandro che ha 11 anni e indossa una maglia della Juventus col nome di Ronaldo («ma mi piace più di tutti Buffon», confida). «Non ce l’hai un pallone? – chiede -, qui non ne abbiamo più». «Magari vedo ti portartelo la prossima volta…». «Sì, la prossima volta, quando io sarò già andato nel prossimo posto…». Una frase in cui c’è tutta la transitorietà e l’impotenza di una giovane vita alla deriva in un mondo che lo trasporta come un fuscello in un oceano in tempesta.

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