Ultimatum all’Onu sul campo-città: «Dadaab va chiuso»
Kenya Il governo dà due settimane di tempo per individuare soluzioni e chiudere il campo più grande d'Africa, considerato pericoloso per la sicurezza. Una non-città, dove i rifugiati non sono cittadini ma la struttura della vita sociale è ormai quella urbana
Kenya Il governo dà due settimane di tempo per individuare soluzioni e chiudere il campo più grande d'Africa, considerato pericoloso per la sicurezza. Una non-città, dove i rifugiati non sono cittadini ma la struttura della vita sociale è ormai quella urbana
Dadaab è uno dei più grandi campi profughi dell’Africa e sta per compiere 30 anni. Era l’ottobre del 1991 quando venne istituito per accogliere le migliaia di persone che fuggivano dalla Somalia in fiamme.
In questi decenni ha fornito protezione, riparo e assistenza umanitaria, spesso in circostanze difficili e complesse, a decine di migliaia di persone arrivando a ospitarne quasi 500mila. Ma per Dadaab e per Kakuma (altro campo del Kenya) potrebbe essere arrivato il tempo della chiusura. Il governo del Kenya ha chiesto all’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) di presentare entro due settimane un piano di chiusura dei due campi. Il ministro degli Interni ha aggiunto: «Non c’è spazio per ulteriori colloqui sulla questione».
Il Kenya aveva già chiesto nel 2016 la chiusura dei campi per motivi di sicurezza, ma la decisione era stata bloccata dall’Alta Corte. Secondo rapporti di intelligence alcuni attacchi terroristici avvenuti nel 2013 (Westgate), nel 2015 (Garissa University College) e nel 2019 (Dusitd2) avrebbero visto il coinvolgimento di persone residenti nei campi che per il Kenya sono «terreno fertile per i terroristi».
In una nota l’agenzia Onu ha sostenuto che continuerà a impegnarsi in un dialogo con le autorità keniane sulla questione. Non si tratta di «spostare» semplicemente 400mila persone, ma di chiudere una città. Il campo è una delle nuove territorialità e geografie che gli studiosi non esitano a definire città.
Insediamenti abitati di 50, 100 fino a 500 mila abitanti che potrebbero sembrare delle «non-città» o delle «più-città» perché sono sovra-rappresentati in essi i tratti caratteristici degli agglomerati urbani. Anche se spesso nei luoghi «non» quel che manca dice ciò che sono.
Il campo ha una dimensione quasi-urbana secondo il prof. Mwangi Kagwanja in termini di estensione, densità abitativa, layout, concentrazione di infrastrutture tecniche, profilo socio-occupazionale e attività economiche che in esso si sviluppano. Una città organizzata secondo i principi del controllo, sulla codificazione di flussi e sul welfare. E come tutte le città è cresciuta per espansione passando dai 90mila abitanti degli anni ’90 agli attuali 218mila (nel 2012 erano 463mila), ma si caratterizza perché seleziona e segrega.
Siamo abituati a pensare la città come figlia del processo di industrializzazione dimenticando la città orientale, le città dell’antica Grecia o Roma o quelle medievali, le città Yoruba e i Kingdom africani ognuna delle quali sottende all’idea stessa dell’«uomo» e delle sue relazioni con l’ambiente. Città-giardino, città verticali che guardano al cielo, città ideali concepite per essere riproducibili come standard. Tutte città che negli anni si sono ibridate, frammentate, incastonate con altri pezzi di città, che sono persino morte, ma nessuna è implosa su se stessa come potrebbe succedere a Dadaab.
Un giovane studioso italiano (Camillo Boano) già all’epoca aveva proposto che uno degli sviluppi possibili di questi campi (città nude) fosse farli diventare effettivamente città: colmando la distanza che separa i rifugiati dai cittadini. Dadaab chiuderà proprio perché non è stato possibile colmare questo gap. Ha continuato a essere una città senza cittadini. Buon compleanno Dadaab.
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