Due giorni al voto su von der Leyen ripresidente della Commissione e FdI ancora non ha deciso cosa fare. Se in ballo ci fosse solo l’ormai famigerato «commissario di peso», in traduzione la Concorrenza per Raffaele Fitto, quasi non ci sarebbe problema. Ma il nodo è politico e si è aggrovigliato a destra in conseguenza di quel “fattore Trump” di cui nessuno parla apertamente ma che invece condiziona a fondo la situazione europea. Del resto immaginare che una rivoluzione alla Casa Bianca non si rifletta sull’Europa sarebbe ingenuo.

PROPRIO PERCHÉ la questione è politica i Fratelli in ambasce assegnano grande importanza all’incontro di stamattina tra la presidente e la delegazione dei Conservatori. La presidente del gruppo, Giorgia Meloni, non ci sarà. Dovrebbe però sentire al telefono la candidata.«Chiederemo discontinuità su diverse cose», preannuncia il copresidente del gruppo Nicola Procaccini. Ma che dall’incontro esca fuori qualcosa di concreto è molto improbabile anche se la candidata sta promettendo tutto a tutti. Garantire da un lato che «non ci sarà collaborazione strutturale con Ecr» e dall’altro dare soddisfazione programmatica alla stessa Ecr sembra però esercizio troppo spericolato persino per lei. Per Giorgia Meloni votare una commissione in continuità con quella precedente, con la quale peraltro è sempre andata d’accordissimo, è diventato quasi impossibile. L’ultima parola non è detta ma le probabilità di una astensione di FdI giovedì a Strasburgo si sono moltiplicate e rasentano l’inevitabilità.

Tutta colpa di Donald Trump. È l’eventualità ormai concreta di un ritorno del tycoon alla Casa Bianca che ha modificato gli equilibri della destra a Bruxelles e Strasburgo, determinando anche la stessa nascita dei Patrioti. La spinta di una vittoria di Trump sarebbe poderosa. Le ricadute sul fronte più nevralgico, quello della guerra, sarebbero immediate, perché il peso e il costo del conflitto ricadrebbero in misura molto maggiore su un’Europa i cui cittadini già nutrono sentimenti piuttosto tiepidi nei confronti di una situazione della quale non si vede una fine a breve. La destra di Orbán e Le Pen è pronta alla battaglia.

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LA SFIDA DI VIKTOR ORBÁN è da questo punto di vista esemplare. Ieri il premier ungherese ha scritto ai leader europei rivendicando la missione a Mosca e Pechino, quella che ha mandato fuori dai gangheri tutte le cancellerie europee, e mettendo nero su bianco il punto di vista opposto: «Se l’Europa vuole la pace deve elaborare e attuare un cambio di direzione». Allo stesso tempo il portavoce (e omonimo) del presidente fa sapere che nonostante le sfuriate europee le missioni «non autorizzate» ungheresi proseguiranno. Bruxelles medita di rispondere con un clamoroso gesto di rottura: boicottare la conferenza informale sugli esteri fissata a Budapest per il 28 e 29 agosto dalla presidenza di turno ungherese con la convocazione di un vertice ufficiale che impedirebbe a tutti i ministri degli Esteri di partecipare al vertice di Orbán. È una spaccatura che tra i governi vede oggi l’Ungheria isolata ma sostenuta da tutta la destra europea, tranne FdI, e in sintonia sia con il tycoon all’arrembaggio che con gli umori di una parte non esigua dell’opinione pubblica.

Il fronte del rigore è altrettanto incandescente. Ieri il commissario uscente all’Economia Paolo Gentiloni ha ricordato che tutti devono mettersi in regola con i parametri fiscali: «Non è un compito facile ma i piani di aggiustamento sono necessari, la traiettoria realistica». Gentiloni rilancia anche la proposta di debito comune: «È ora di immaginare nuovi strumenti di finanziamento comuni». Sul primo punto, il rigore, i falchi accorrono. Il ministro delle Finanze tedesco Lindner rincara: «Mi aspetto il rispetto delle regole da parte di tutti, anche della Francia e del suo prossimo governo». Sul secondo punto, invece, il pollice verso scatta con altrettanta immediatezza, con l’Olanda che al solito si incarica di dar voce a quel che pensano Berlino e i frugali: «Il debito comune? Non serve».

IN QUESTO CLIMA la nuova presidenza von der Leyen è diventata il simbolo stesso dell’Europa di sempre, quella che la destra vuole abbattere. La premier italiana con Ursula von der Leyen aveva lavorato benissimo e sulla guerra la pensa come Biden. Ma esita a fare un passo che equivarrebbe alla rottura profonda con il resto della destra europea. Lo stesso vento americano scuote la destra anche nei confini nazionali. La guerriglia leghista è stata sinora solo il tentativo un po’ sgangherato di conquistare visibilità. Ora ha per la prima volta una valenza strategica e per questo si dispiega a tutto campo, al punto da far ipotizzare una convergenza con il Pd contro il decreto sulle liste d’attesa di Meloni. Il capogruppo del Carroccio Massimiliano Romeo smentisce: «Tutte sciocchezze». L’ultima parola però non è detta.