C’è una parola che in Ucraina non si pronuncia ma che inizia ad appesantire i ragionamenti e le conversazioni di un ingombrante non detto: sconfitta. Sul campo non siamo a quel punto, la ritirata da Avdiivka, seppure importante, non ha cambiato gli equilibri in modo così deciso. Ma il momento è difficile, il futuro non appare migliore e, al netto delle sparate verbali di qualche leader europeo, gli alleati non sono più quelli di prima.

SUL FRONTE EST la famosa III armata d’assalto ucraina è riuscita a riconquistare qualche chilometro verso Krasnogorivka, arrestando l’avanzata russa costante degli ultimi giorni. Ma a Chasyv Yar, secondo lo stesso Stato maggiore «si fa tutto il possibile» con enorme difficoltà per tenere le posizioni, così come in altri punti meno coperti. Si teme molto per Vuhledar e anche più a nord, a Kupiansk e Kreminna. Intanto i bombardamenti ai centri urbani nelle retrovie hanno ripreso e si sono intensificati.

In Donbass i civili sono stanchi di vedere i giornalisti perché ogni volta che le città si popolano di colleghi vuol dire che qualcosa di brutto sta per succedere. Non si tratta di quella che tutti i siti anglosassoni definiscono war fatigue, la stanchezza provocata dalla guerra sia nella società che la combatte sia in chi sostiene il belligerante. Ma è una stanchezza più sottile, meno definita e pertanto imprevedibile.

«INIZIO A PENSARE che tutti quei personaggi che a inizio guerra ripetevano in continuazione “vinceremo, è praticamente già fatta, tranquilli, un paio di settimane e torneremo alla normalità” siano stati un problema» racconta Katarina, una ragazza di qui. «È nato tutto lì, da quest’esagerazione costante… certo da un lato bisogna combattere una delle macchine da propaganda più potenti del mondo, ma per contrastare i russi alcuni dei nostri forse hanno un po’ esagerato».

«Pensa – racconta ancora Katarina – che la settimana scorsa in piazza Maidan a Kiev ho incontrato un signore con un cartello che protestava contro il governo, così, da solo, mi sono fermata a parlarci e dopo un po’ mi ha detto: “Mi chiedo se alla fine riusciremo a tenere almeno Kiev”». Colpisce il fatto che questo aneddoto venga da una di quelle ragazza ucraine che dall’inizio della guerra non ha fatto altro che impegnarsi per la vittoria del suo Paese. Collette, comunicazione sui social network, coordinamento di aiuti umanitari, debunking della propaganda russa… per lei, figlia di cosiddetti filo-russi, era una sorta di missione cacciare ogni influenza di Mosca sull’Ucraina, fino al parossismo. Se ammette lei che la situazione è drammatica vuol dire che qualcosa si è definitivamente rotto.

Non è la «fede nella vittoria», la religione che il presidente Zelensky professa urbi et orbi da due anni, non è neanche la speranza. E men che mai il coraggio o concetti più equivoci come la lealtà alla causa o l’abnegazione. Si tratta di un demone chiamato verità. Ovvero, il nemico di ogni governo in guerra, soprattutto quando le cose vanno male.

ZELENSKY O I SUOI MINISTRI non possono dire «siamo in estrema difficoltà», solo uno sciocco potrebbe esigere il contrario. Se lo facesse, per cosa dovrebbero dare la propria vita i soldati al fronte? Per cosa soffrire il freddo e gli stenti i civili nelle zone più colpite? L’elenco delle domande retoriche è lungo ma aggiungiamo: come potrebbe Kiev presentarsi agli alleati e chiedere nuovi aiuti militari? Non potrebbe, semplice. Chi vorrebbe sprecare i propri soldi per una guerra già persa.

E difatti, come sosteniamo fin dal 24 febbraio 2022, il dualismo porta fuori strada. Per i soldati al fronte c’è un solo bianco e nero: vivo io o muori tu. Per i civili nelle retrovie no. I soldati di Mosca hanno quella che in gergo militare si chiama «l’iniziativa» ma non sono riusciti ancora a creare una falla nelle difese ucraine. Potrebbero riuscirci a breve, come sostengono dal Cremlino, o provarci in primavera, come dichiara Zelensky.

«NON SO, MA LA SITUAZIONE non mi sembra buona» risponde Maria, quando le chiedo perché ha riempito il carrello di provviste all’uscita di un supermercato di Slovjansk. Ma prima era meglio? «Terribile, sempre terribile, ma negli ultimi mesi… come dire…». Si vede che non vuole ammettere che si era abituata, ma poi trova le parole: «Pensavamo che ormai si combattesse lontano, o meglio, non è lontano perché sono 30 km da qui, però pensavamo che sarebbero rimasti lì chissà per quanto».

E invece no, il fronte si è avvicinato e ora preme su Slovjansk e sulla vicina Kramatorsk con rinnovato clamore. Ma il punto non è quello: Maria non ha fatto una valutazione tattica del contesto. Di contro, la ritirata da Avdiivka le ha aperto gli occhi, anzi, la mente, permettendole di pensare a quella parola terribile che a Kiev sa di tradimento.