Nelle date del 26-27 aprile prossimi si terrà a Roma un vertice sulla ricostruzione dell’Ucraina, organizzato dalla Farnesina, sulla scia di analoghe iniziative di Olanda, Germania, Francia.
Ma i vertici che sembrano contare veramente sono quelli di natura multilaterale come quello dell’estate scorsa a Lugano e quello previsto per il 21-22 giugno a Londra.
In tali occasioni si moltiplicano i contatti fra aziende, istituzioni e autorità ucraine; in sostanza ogni governo cerca di spingere le proprie aziende; può parere bizzarro sgomitare tanto per la ricostruzione nella fase in cui non solo si combatte ancora ma nessuna avvisaglia di pace è in vista.
C’è però la percezione diffusa che chi prima arriva siederà ai posti migliori per godersi il banchetto. Resta da vedere quanto sostanziose saranno le pietanze, cioè, fuori metafora, chi metterà i soldi – e quanti. Un rapporto congiunto di Onu, Ue e Banca Mondiale valuta l’entità di denaro necessaria a ricostruire i danni inflitti fino a febbraio 2023 (quindi del primo anno) in 411 miliardi di dollari.
Da quando l’Ucraina è fuoriuscita dal cono di influenza russa ad inizio 2014 in quello che molti definiscono un golpe filo-occidentale, il paese è stato esposto ad un processo di indebitamento crescente verso le istituzioni occidentali (Bm, Fmi), Stati uniti e Unione europea, e parallelamente ad una terapia neoliberale piuttosto sostenuta.
Basti citare il fatto che a marzo 2020 il legislatore ucraino ha votato per revocare il divieto di vendita di terreni agricoli in vigore da quasi due decenni, eliminando uno degli ostacoli necessari per sbloccare un pacchetto di prestiti da 8 miliardi di dollari dal Fondo monetario internazionale; nel gennaio 2018 era stata approvata una sfilza di privatizzazioni per compiacere sempre il Fmi.
Dal 2017 al 2021 si è tenuta ogni anno una Ukraine Reform Conference, dagli accenti marcatamente neoliberisti e mercatisti. Coerentemente, nel 2022 alla già citata Conferenza di Lugano per la ricostruzione si presenta un documento intitolato Economic Recovery , i cui termini sono abbastanza espliciti: «diminuzione della spesa pubblica», «efficienza del sistema fiscale» e «deregolamentazione». Consiglia di “ridurre ulteriormente le dimensioni del governo” attraverso la privatizzazione e altre riforme, liberalizzando i mercati dei capitali e garantendo la «libertà di investimento» , creando così un «clima di investimento migliore e più familiare per l’UE e gli investimenti diretti globali».
Ma i soldi da dove arriveranno? Già a fine 2022 Kiev si avvale della consulenza di BlackRock, il gigantesco leviatano degli investimenti speculativi, che vagheggia un po’ genericamente di «creare opportunità», dove il governo ucraino parla più direttamente di «attrarre capitali privati».
Kiev ha più volte detto che si dovrebbero usare le proprietà confiscate alla Russia, in specie i 300 miliardi di riserve della sua Banca Centrale. Ma è un’operazione complessa. Un documento della Commissione datato 21 marzo 2023 e diffuso dalla testata Politico affronta con cautela la questione: non si sa dove siano esattamente tutte queste riserve, e occorre far fronte al fatto che la revoca delle sanzioni ne comporterebbe la restituzione.
La soluzione suggerita è investirle e tenersi i profitti, ma in caso di perdite con la decadenza delle sanzioni la Ue dovrebbe pagare a Mosca la differenza! Può parere bizzarra tale prudenza riguardo ad un paese con cui si è a un passo dalla guerra, ma il documento cita rischi politici e di mercato.
Al di là di tale fonte possibile non sta emergendo nulla di concreto, salvo ulteriori finanziamenti dei soliti Fmi e Banca Mondiale, che sono troppo pochi. Si può in ogni caso essere sicuri di due cose: la partnership pubblico-privato non parte se quest’ultimo non riceve solide garanzie dal primo; e che investimenti di questo genere richiederanno ulteriori adeguamenti neoliberisti per creare un «clima favorevole», come la desertificazione dei diritti sindacali e del lavoro, punto su cui Zelensky pare procedere a passo di marcia.