La paura delle persone disabili quando vengono alzate dalla sedia a rotelle per essere adagiate sulla barella è disarmante. Non ha a che fare con la guerra in corso, ma con una concitazione che rompe ogni consuetudine. I volontari della Croce rossa ucraina e le infermiere cercano di rassicurarle come possono ma non c’è verso.

Poi, una volta distesi, nel tragitto verso l’ambulanza, i degenti si guardano intorno spauriti come se andassero al patibolo. Spesso le infermiere inseguono le barelle per consegnare qualche effetto personale dimenticato e per dare un ultimo saluto a chi parte, oppure sono i volontari stessi che cercano il personale dell’ospedale per associare il paziente a un documento, a un nome.

LE EVACUAZIONI degli ospedali sono all’ordine del giorno nelle città ucraine vicino al fronte e Kherson non fa eccezione. Non solo per questioni di sicurezza. Ieri, ad esempio, è stato colpito il reparto di maternità di uno degli ospedali cittadini ma per fortuna non ci sono state vittime.

Il motivo principale è che al momento manca la corrente elettrica o, nei casi migliori, non si riesce a garantirla con continuità. E quindi c’è non solo il rischio che i macchinari si fermino, ma che un bombardamento possa colpire la zona e rendere impossibile l’evacuazione.

Quando ciò accade, senza corrente e senza soccorsi esterni, il numero di morti a causa di un bombardamento cresce esponenzialmente.

Ecco perché i soccorritori partono la mattina molto presto per raggiungere gli ospedali della provincia, come ieri a Komyshany, nel nord-ovest di Kherson. Le strade sono dissestate, molti ponti sono interrotti, nelle deviazioni il fango obbliga a rallentare e a prestare attenzione a ogni pozzanghera se non si vogliono rompere gli ammortizzatori e rimanere impantanati.

Quando si arriva c’è poco tempo, in primis per il rischio che un attacco blocchi l’operazione, in secondo luogo perché bisogna raggiungere altre strutture sanitarie in aree considerate meno a rischio. Il convoglio di ieri, a esempio, doveva prima recarsi a tre ore di distanza in una cittadina a nella parte settentrionale di Mykolayiv, scendere a Odessa e poi tornare verso Kherson.

Un’intera giornata da un ospedale all’altro, per recuperare chi non è nuovo alla sofferenza e portarlo più al sicuro. Spesso in questi tragitti i pazienti piangono, si agitano e urlano reclamando spiegazioni. Ma i volontari della Croce rossa che ci è capitato di vedere finora hanno tutti una dote particolare: riescono a trasmettere tranquillità.

ALMENO QUESTO è ciò che si vedeva nel volto di Yelena, affetta da una sindrome grave, che per più di due ore non ha mai lasciato la mano di Sergey, un ragazzo di Kherson scampato all’occupazione russa per poche ore e volontario dal 28 febbraio.

Pensavo che si conoscessero visto quanto teneramente Sergey stringesse la mano della ragazza, da come le puliva la saliva sotto il mento di tanto in tanto e le asciugava le lacrime di paura che periodicamente le bagnavano il contorno degli occhi.

Yelena guardava me e due colleghi, vestiti con i giubbotti antiproiettile neri, in piedi davanti a lei e intenti ad evitare di romperci il collo e poi si voltava verso Sergey che le sorrideva amabilmente tranquillizzandola. Ma quando gliel’ho chiesto Sergey ha smentito. «È la prima volta che la vedo» ha risposto.

A guardarlo veniva voglia di fargli i complimenti, di dirgli che era una persona splendida o un eroe addirittura. Qualsiasi parola che gli esprimesse gratitudine a nome di tutto il genere umano per ciò che faceva in quel momento. Poi a Yelena scendeva un’altra lacrima e tutto perdeva di senso lasciando il posto solo a un gran senso di inadeguatezza.

COSA SI VUOLE raccontare di tutto ciò? A chi interessa che un ospedale di neuropsichiatria vicino a una città che è diventata suo malgrado uno dei simboli di questa guerra sia stato evacuato quando ci sono migliaia di civili che scappano ogni giorno?

A essere onesti i volontari che ci avevano accordato il permesso di seguirli non avevano specificato di che struttura sanitaria si trattasse, in caso contrario non so neanche se noi stessi saremmo stati interessati. Molte di queste persone non parlano dalla nascita, come trarne una storia?

Durante le evacuazioni capita di tutto, che qualcuno tenti di salire a bordo dei mezzi di soccorso per scappare, che le auto e i minivan dei civili si accodino al «trasporto d’emergenza» per passare i posti di blocco in fretta e senza problemi, che i convogli stessi siano attaccati o che un incidente blocchi il percorso.

LA CROCE ROSSA e la maggior parte delle altre organizzazioni che si occupano anche di assistenza medica negli scenari di guerra non possono permettere ai civili di seguirli. È contro il regolamento, contro le norme di sicurezza, contro le disposizioni governative… insomma, non è possibile se non è organizzato a tavolino.

Del resto, anche quando è organizzata può capitare di tutto. Il giorno prima, a pochi chilometri da Kherson il convoglio è passato in mezzo a uno scambio d’artiglieria e alcuni colpi sono caduti a pochi metri dalla strada. Gli autisti sono stati costretti a invertire la rotta e tornare in città.

Ieri invece è andato tutto bene, e ancora una volta si può pensare che c’è chi sta peggio. Ci sono i civili di Kiev nelle metro ma tutto sommato la capitale non è stata bombardata così tanto, c’è Zaporizhzhia ma anche la Crimea ieri è stata colpita e una caserma russa ha bruciato per ore lasciando non si sa quanti morti, c’è Kherson che ora deve difendere Mykolayiv, ma Mykolayiv per mesi è stata la martire designata in difesa di Odessa.

E poi ci sono i civili al gelo, senza né acqua né cibo. Quelli di Bakhmut colpiti anche ieri in una città quasi spazzata via dalla faccia della terra e quelli del Donbass abituati da 8 anni.

MA QUANDO si tratta di chi non ha nessuna difesa, neanche fisica, di chi non potrebbe (neanche volendo) mettere in pratica quello spirito di adattamento di cui abbiamo parlato così tante volte, cosa rimane? Una mano stretta forte e un fazzoletto pieno di lacrime e saliva.