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Uccisi e fatti a pezzi. Brasile, Dom e Bruno dovevano sparire

Uccisi e fatti a pezzi.  Brasile, Dom e Bruno dovevano sparireCopacabana, protesta per la scomparsa e l’uccisione di Dom Phillips e Bruno Pereira – Ap

Amazzonia sotto attacco Preso il killer del reporter e dell’indigenista scomparsi il 5 giugno. I resti sepolti nella foresta. Un crimine figlio del clima di impunità

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 17 giugno 2022

Si e conclusa nel modo più tragico la vicenda del giornalista inglese Dom Phillips e dell’indigenista brasiliano Bruno Pereira. I loro corpi sono stati ritrovati all’interno della foresta a tre chilometri dal margine del fiume Itaquaì che stavano percorrendo quando sono scomparsi il 5 giugno. Hanno pagato con la vita il loro impegno a favore delle popolazioni indigene della Vale do Javari, stato di Amazonas.

UN ASSASSINIO BRUTALE che aveva lo scopo di farli scomparire per sempre. I loro corpi sono stati fatti a pezzi, bruciati e interrati senza alcuna pietà. Il principale sospettato, il pescatore Amarildo da Costa de Oliveira, ha confessato e indicato il luogo dove si trovavano i resti. Ma non ha agito da solo e sono numerose le persone indagate. La pesca illegale, attività che Pereira cercava di contrastare collaborando con le comunità indigene, è alla base dell’assassinio. Ma Bruno cercava anche il dialogo con i pescatori e, prima di partire, aveva cercato di parlare con lo zio di Amarildo, persona influente nella comunità, per ribadire la necessità di una pesca sostenibile. Non lo aveva trovato e aveva lasciato un biglietto invitandolo a mettersi in contatto con lui. La famiglia di Phillips ha voluto ringraziare le comunità indigene per la dedizione mostrata in questi giorni.

Il duplice assassinio entra con forza nella campagna elettorale in corso e riporta all’attenzione internazionale il clima di violenza e le attività predatorie che si registrano in Amazzonia. Il governo Bolsonaro e la Funai (Fondazione per l’indio) sono sotto accusa sia per le dichiarazioni di questi giorni che per avere favorito le attività illegali nella regione amazzonica. «Troppa terra per pochi indigeni», «Gli indigeni impediscono lo sviluppo del Brasile», sono alcuni degli slogan più usati dal presidente.

IL RISULTATO è stato quello di una invasione sempre più estesa dei territori amazzonici e l’aumento dei conflitti. Il tributo di sangue versato in questi anni da indigeni, ambientalisti, difensori dei diritti umani per cercare di arginare le attività illegali è passato troppo spesso sotto silenzio. Nel 2019 un altro funzionario della Funai, Maxciel Pereira dos Santos, che operava nella Vale do Javari in difesa delle popolazioni indigene, era stato ucciso in pieno giorno nel centro di Atalaia do Norte. Crimine rimasto impunito e il clima di impunità ha alimentato la violenza che ha portato alla brutale esecuzione di Phillips e Pereira. Gli indigeni sono «corpi estranei» per una parte della società brasiliana e chiunque li difende è esposto ad attacchi di ogni tipo.

LA FUNAI SOTTO BOLSONARO si è caratterizzata per le scelte anti-indigene. Bruno Pereira ne aveva denunciato con forza la deriva dopo la nomina a presidente di Marcelo Xavier, proveniente dalla polizia federale e sostenuto dalla “bancada ruralista”. Con lui è partito un processo di militarizzazione dell’organismo, in sintonia con quanto avvenuto nell’esecutivo (sette ministri provenienti dall’esercito in ruoli chiave). Un nuovo dossier di 200 pagine elaborato dall’Istituto di studi economici e da appartenenti alla Fondazione, evidenzia che solo 2 delle 39 unità decentrate della Funai, con funzioni di coordinamento regionale, sono affidate a funzionari pubblici, mentre sono 19 quelle coordinate da appartenenti alle forze armate, 3 da poliziotti militari e 2 da poliziotti federali.

LA MAGGIOR PARTE DEGLI ESPERTI di questioni indigene sono stati sollevati dai loro incarichi, come era accaduto a Bruno Pereira, o fatti oggetto di procedimenti disciplinari perché non si adeguavano al nuovo corso.
Le iniziative di solidarietà a favore di Phillips e Pereira che i dipendenti della Funai hanno intrapreso in questi giorni e lo sciopero che hanno indetto contro il presidente Xavier per le sue dichiarazioni «false e offensive contro i due scomparsi» hanno messo in evidenza il grave malessere per come viene gestito un organismo fondamentale nella tutela delle popolazioni indigene e dei loro territori. Si denunciano con forza il militarismo, la gestione antidemocratica, l’influenza dei settori ruralisti sulla Fondazione, ma anche le iniziative in cui Bolsonaro, travestito da indigeno, invitava le comunità a «mettersi in affari», sfruttando le risorse naturali che hanno a disposizione.

UNA VISIONE COLONIALE dell’Amazzonia, come era avvenuto nel ventennio del regime militare, che persegue l’integrazione forzata degli indigeni all’interno di un processo di assimilazione culturale che possa favorire l’occupazione dei territori.
Il Progetto di legge 490, in discussione al Congresso, mira appunto a rendere irrealizzabile il processo di demarcazione, favorendo nella regione le attività estrattive, la costruzione di strade e centrali idroelettriche.

MA SULLE POPOLAZIONI INDIGENE incombe anche il pronunciamento del Supremo Tribunale Federale (Stf) sul “marco temporal”, che ha l’obiettivo di limitare il riconoscimento e l’omologazione dei territori. Bolsonaro ha rispettato quello che aveva promesso: zero demarcazioni durante il suo mandato. Lula, nella sua prima dichiarazione dopo la notizia del ritrovamento dei corpi di Phillips e Pereira, ha affermato che «il processo di demarcazione deve andare avanti come dovere etico e morale».

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