Tutto il mondo in una notte di racconti davanti al fuoco
Cinema Presentato al Forum, e chissà perché non in concorso, «Ta’ang» di Wang Bing è uno dei film più belli visti alla Berlinale. L'esodo di donne e bambini tra le montagne, la foresta, il suono delle armi racconta il nostro tempo, la violenza della guerra. E ci rende partecipi di una realtà che ci riguarda da vicino anche se è quella lontana di un piccolo popolo sconosciuto
Cinema Presentato al Forum, e chissà perché non in concorso, «Ta’ang» di Wang Bing è uno dei film più belli visti alla Berlinale. L'esodo di donne e bambini tra le montagne, la foresta, il suono delle armi racconta il nostro tempo, la violenza della guerra. E ci rende partecipi di una realtà che ci riguarda da vicino anche se è quella lontana di un piccolo popolo sconosciuto
I Ta’ang sono un gruppo etnico che abitauna regione montagnosa tra la Cina e la Birmania. Nel febbraio del 2015, la guerra civile ha costretto 100 000 persone a rifugiarsi al di là del confine… Wang Bing ne ha filmato il periplo.
Quello dei rifugiati, si è rivelato essere il soggetto del giorno, di molti film visti a Berlino, nonché di quello che ha vinto. Ma un soggetto è un affare, sociale o politico: ci si fa un articolo di giornale, oppure un reportage. Ma non un film. Un affare lo si indaga, un film lo si guarda. Nella migliore delle ipotesi, si scopre che il film stesso ci riguarda. Quello di Wang Bing, nonostante mostri un piccolo popolo sconosciuto e lontano, è, dei film visti alla Berlinale, quello che ci ha guardato più da vicino – e con più insistenza, fin dalla prima immagine.
«Vattene prima che ti prenda a calci!». L’uomo che si appresta a dare seguito a questa minaccia indossa una divisa militare. Ignoriamo il suo nome. E non lo sapremo. È sua la prima inquadratura del film. Scomparirà presto dalla scena, e non lo rivedremo più. Ma di quelli del suo genere (uomini, militari) sentiremo ancora parlare. Quella che riceverà i colpi, trattata come un cane mentre nutre uno dei sui tre bambini, è una donna Ta’ang. Seduta nel bel mezzo di un campo di rifugiati, nel bel mezzo di un disastro totale, la donna ignora sfacciatamente il proprio aguzzino.
Verrebbe quasi da dire che, in questa prima inquadratura, Wang Bing ha trovato il suo film. Dove precisamente? Nella rustica eleganza degli abiti della donna? Nella sua attitudine stoica? Oppure in quei tre bimbi, che fanno eco alle tre sorelline senza madre, eroine di Three sisters ? Tutti i film di Wang Bing trovano la propria matrice quando riescono a impossessarsi di una struttura. Senza evocare tutta la filmografia, pensiamo al complesso industriale di West of the Tracks, in cui questo cinema è nato e, più recentemente, all’ospedale psichiatrico di Fen Ai. Wang Bing ha bisogno di una struttura perché il suo cinema è avido di totalità.
Ma cos’è la totalità ? Non è un concetto. La totalità è fatta di parti, di pezzi concreti di vita effettiva. Non è «La violenza». Non è «I rifugiati». Non è un tutto indistinto. Nella totalità ci deve essere questa donna. È quella violenza che, in quanto rifugiata, subisce da un uomo in divisa, in quel dato luogo, davanti a quei bambini. Ma questo è un caso particolare – non ancora un tutto. Ecco che il film si mette in marcia. Segue il movimento di un gruppo di rifugiati – per lo più donne e marmocchi. Dorme con loro nella foresta, tra i monti, in un nulla verdeggiante riempito dai rumori di una guerra perennemente alla porta. In questo errare c’è un trovare e c’è un perdere. Si trovano delle persone. Poco a poco, se ne colgono i nomi, i rapporti familiari, i problemi – chi scappando ha lasciato indietro la madre, chi si è portato appresso i figli del vicino… Ma, non appena siamo entrati a far parte di un gruppo, Wang Bing ci sradica senza tante cerimonie e ci getta in un altro gruppo.
È un modo per rappresentare allo spettatore la violenza della guerra, che fa e disfa senza tregua ogni legame. Ma non è solo questo. Wang Bing lo sa, nessuna serie di esempi darà mai un tutto. Questo saltare da una situazione ad un’altra ha la virtù di affaticare il pregiudizio dello spettatore. Non appena l’occhio si è abituato, non appena qualcosa come un idea, un punto di riferimento viene allo spirito e l’ombra di una regola sta per formarsi, Wang Bing rompe lo schema e passa ad altro.
Ma allora, dov’è il tutto? Wang Bing lo trova in un’altra immagine. Quella del fuoco, della notte, del cerchio formato dalle donne che sedute intorno al fuoco spartiscono un pasto, nutrono i figli, ammazzano l’insonnia ed il freddo. Una notte e un fuoco in particolare, per lunghezza e forma, hanno una posizione eccezionale nel film. Straub diceva che non c’è nulla di più difficile che filmare un fuoco. Wang Bing ha fatto qui qualcosa di inaudito. Nell’impossibilità di capire quello che si diceva (la lingua Ta’ang non ha nulla a che vedere con il cinese), si è lasciato guidare dal fuoco. Spegnendo la macchina da presa quando languiva. Riaccendendola quando qualche avventore, soffiando sulle braci e rimettendo della legna, lo ravvivava.
Il fuoco, si sa, non è mai uguale, la luce cambia, e con essa il modo di parlare di chi riscaldandosi si rivela agli altri. Dall’aneddoto si passa a una parola più semplice e più vera. Alla fine della notte, si è riuscito a dire qualcosa che c’era fin dall’inizio ma non si vedeva, non si sapeva o non si voleva dire. Alla fine della notte si è detto tutto. E Wang Bing era lì per filmarlo.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento