Tutto bene per Kamala Harris. Finché è rimasta nella bolla
Elettorale americana Il grande coinvolgimento visto alla Convention democratica di Chicago era necessario per coprire un’operazione politica delicata: la scelta dall’alto della candidata
Elettorale americana Il grande coinvolgimento visto alla Convention democratica di Chicago era necessario per coprire un’operazione politica delicata: la scelta dall’alto della candidata
Che cosa resta della convention di Chicago? I centomila palloncini rossi, bianchi e blu che il mattino di venerdì coprono la platea e gli spalti dell’United Center raccontano di una nottata di colori, musica ed euforia, l’ultima notte del grande raduno democratico, culminata nel discorso di accettazione della nomination da parte di Kamala Harris. Abel López, addetto della squadra di pulizia, è fiero di mostrarsi in una foto in cui, armato di un ago, buca uno per uno i palloncini.
Un’immagine da far arrivare via X ai suoi parenti a Coyolillo, in Messico. Che non sia la metafora della bubble, la bolla che è stata la quattro giorni democratica, ora destinata a sgonfiarsi in un baleno? Una bolla? Le assise democratiche nell’United Center lo sono state, una bolla. Ma non significa che sia destinata a scoppiare, tanto meno in seguito a un colpo d’ago sferrato da Trump con la destrezza di Abel.
LA CONVENTION aveva infatti il deliberato obiettivo di riunire sotto la grande tenda di Chicago quattromila delegati ormai liberi dal mandato ricevuto dagli elettori nelle primarie e ora incaricati di una nuova grande responsabilità, quella di votare un’altra candidatura, «nominata» dai big del partito. Un’operazione politica delicata e difficile che aveva bisogno, per la sua riuscita, di un considerevole coinvolgimento, corale, emotivo, dei delegati, diventando evento spettacolare per venti milioni di americani ogni sera in sintonia tv con la convention.
Quindi dosi massicce di orgoglio di appartenenza a un partito che annovera star come gli Obama e i Clinton, ma anche celebrities esordienti come la stessa nuova numero uno, Kamala, e il suo vice Walz, e tante altre personalità, come Pelosi. Ocasio-Cortez, Buttigieg, governatori e sindaci noti oltre il loro territorio. L’opposto del partito padronale di Trump. Un’operazione volutamente autoreferenziale, da parte di una forza politica che, in quelle stesse giornate, fosse rimasto Biden il candidato presidenziale, avrebbe celebrato una mesta cerimonia di resa all’eversore Trump. La piattaforma politica, le grandi questioni del momento sono state messe in ombra da una sorta di rituale collettivo mirato a ricostituire innanzitutto nella sua identità un partito competitivo e una leadership in grado di guidarlo.
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Dal rischio Trump al “cessate il fuoco” a Gaza. I 40 minuti di Kamala HarrisL’assenza di discussione su importanti temi politici, interni e internazionali, fino alla cancellazione della questione palestinese, è anche il frutto di una scelta della regia della convention radicalmente orientata in senso autoprotettivo, e dunque autoreferenziale, con la celebrazione liturgica dell’unità, che non va messa a rischio da temi che possono essere di conflitto e di divisione e con la costruzione di una leadership che guidi la riscossa.
I SONDAGGI promuovono l’operazione. Kamala è in vantaggio ed è probabile che lo sarà ancor di più nei prossimi giorni, sotto la spinta di un’iper esposizione mediatica. Un altro indizio del successo è il nervosismo di Trump che continua ad annaspare nella ricerca di un registro contro la nuova avversaria che non sia il distillato di misoginia e il cocktail di menzogne e insulti. Il 10 settembre dovrà vedersela direttamente con lei, a Filadelfia, nel primo duello televisivo. Di qui ad allora quindici giorni di fuoco per arrivare all’appuntamento in posizione di vantaggio, specie nelle venti contee in bilico dei sette stati decisivi per la vittoria del 5 novembre.
Trump avrà di fronte un’avversaria in grado di metterlo ko, da quanto si è visto nella serata della sua incoronazione a nominee democratica. Harris ha dimostrato di essere a suo perfetto agio nei panni dell’aspirante presidente pur essendo la sua una candidatura decisa e costruita a tavolino.
Quaranta minuti di un discorso molto ben elaborato ed esposto, in cui, se le posizioni politiche erano solo tratteggiate, senza mai andare nello specifico, erano molto bene argomentate, con il tono e la sicurezza di una persona di legge di lungo corso ed esperienza. Trump, questa volta, non potrà eludere il «processo» che con ogni espediente i suoi legali e i giudici supremi sono finora riusciti a risparmiargli.
I DEMOCRATICI hanno ora un ticket che può vincere, per le personalità che lo compongono, aiutato da una squadra di politici esperti e popolari pronti a dare man forte. E poi donor generosi che consentono una campagna molto intensa e dispendiosa, non solo ricchi ma molti piccoli donatori e anche piccolissimi, un fenomeno che rivela una mobilitazione impensabile fino a un mese fa.
Certo, resta molto dura la sfida. La vittoria sfilata quando pensi di averla già in tasca è un fantasma che continua a spaventare i democratici, come ha ricordato bene Bill Clinton.
È il momento del confronto con la realtà. Se la bolla ha consentito per quattro giorni di tenere in attesa «la politica», la sua elusione, d’ora in poi, sarà impossibile. E seppure ci sarà la tentazione di eluderla, ci penseranno i manifestanti che certamente non hanno tolto le tende a Chicago per rinunciare alla loro lotta.
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