C’era d’aspettarselo, ma non con tanta tempestività. A meno di due settimane dal ballottaggio che ha portato il primo candidato progressista della storia recente del Guatemala alla massima carica dello stato, la procuratrice della repubblica Consuelo Porras ha rilanciato la messa fuori legge del Movimiento Semilla del presidente eletto Bernardo Arévalo (già tentata invano tra il primo e secondo turno) per presunte irregolarità nella raccolta delle firme all’atto della costituzione del partito, ben quattro anni fa. Di conseguenza, poche ore dopo, il direttivo del parlamento ha inabilitato seduta stante i 23 deputati eletti di Semilla.

ARÉVALO e la sua vice designata Karin Herrera hanno immediatamente gridato al colpo di stato, accompagnati da manifestazioni spontanee nella piazza centrale della capitale e delle principali città. Persino alcune organizzazioni indigene, arbitrariamente escluse dal processo elettorale e che si erano astenute dall’appoggiare Arévalo, hanno chiesto le dimissioni di Porras per «attentato al sistema democratico», minacciando, in caso contrario, di paralizzare importanti vie di comunicazioni del paese.

Di qui la decisione del Tribunale supremo elettorale di congelare l’istanza giudiziaria perlomeno fino al 31 ottobre prossimo, quando toccherà alla Corte costituzionale dire l’ultima parola. Il percorso di qui al 14 gennaio prossimo, data di assunzione dei poteri di Arévalo, si preannuncia dunque assai impervio oltre che infinito.

Anche perché nella migliore delle ipotesi la coppia eletta rischierebbe di non avere neppure una (seppur minoritaria) rappresentanza nell’Assemblea legislativa. Per quello che si propongono dovrà essere l’avvento di una «nuova primavera democratica», con al centro la lotta alla corruzione.

IL PRESIDENTE iperconservatore uscente, Alejandro Giammattei, si è già riunito con Arévalo garantendogli una «transizione ordinata». Ma è proprio il suo sconfitto partito Vamos ad aver presentato il ricorso di illegittimità di Semilla a un potere giudiziario completamente controllato dalla sua oligarchia bianca, soprattutto dopo la liquidazione nel 2019 della Commissione internazionale contro l’Impunità che determinò l’esodo di decine di magistrati dal paese. Mentre la antagonista di Arévalo nel testa a testa alle urne, Sandra Torres, non ha mai riconosciuto la sconfitta.

L’Onu e soprattutto l’Organizzazione degli Stati americani sono venuti in aiuto di Arévalo. Ma soprattutto gli è arrivato il sostegno di Kamala Harris, vicepresidente di quell’impero che nel 1954 rovesciò con un golpe la Rivoluzione democratica guatemalteca, di cui paradossalmente era stato presidente proprio il padre di Bernardo, Juan José Arévalo, poi finito in esilio. È che anche nell’istmo centroamericano la geopolitica è in rapido e profondo mutamento rispetto alle banana republics di un tempo.

Basti dire che proprio la scorsa settimana il pur irrilevante Parlamento centroamericano ha sancito la sostituzione di Taiwan con la Cina quale osservatore permanente. Con il solo Guatemala, a differenza di Costarica, El Salvador, Honduras, Nicaragua e Repubblica dominicana, ad aver mantenuto relazioni diplomatiche con Taipei, dopo che per decenni l’isola aveva riversato centinaia di milioni di dollari in cooperazione ai paesi della regione in cambio del suo riconoscimento.

EVIDENTEMENTE gli Stati uniti di Joe Biden, traditi dai narcoligarchi guatemaltechi e preoccupati (oltre che dal fenomeno dell’emigrazione) dall’estendersi dell’influenza cinese nel proprio (oggi assai variopinto) «cortile di casa», si augurano che il paese più grande, ricco e popolato dell’area, pur finito nelle mani del progressista Arévalo, non migri verso Xi Jinping.