Internazionale

Tunisia, Stato di polizia caro all’Europa

Tunisia, Stato di polizia caro all’EuropaAli Bouzouida mostra il luogo dell’agressione, vicino allo stadio da basket nel quartiere popolare di Rades – Foto di Giovanni Culmone

Da Bruxelles 570 milioni in dono a Tunisi per i settori della sicurezza e della giustizia. E con l’Italia rapporti sempre più stretti in chiave anti-migranti. Ma sotto il pugno di ferro del presidente Saied i processi equi restano un miraggio, i diritti umani e sociali non esistono, la violenza delle forze dell’ordine e quella domestica sono la regola

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 2 aprile 2024

Collegato al centro di Tunisi da un pratico treno che costeggia la parte sud della capitale, durante la settimana il sobborgo di Rades assomiglia a una delle tante città che si sviluppano a pochi chilometri dai ritmi frenetici della capitale. Comune di quasi 50mila abitanti, la vita si sviluppa attorno al porto commerciale, il più importante della Tunisia. Il fiore all’occhiello è rappresentato dallo stadio e dal villaggio olimpico costruito per i Giochi del Mediterraneo del 2001, voluto fortemente dal regime del despota Ben Ali.

OGGI QUEL FIORE è un po’ appassito: gli alloggi all’epoca pensati per gli atleti o sono diventati delle abitazioni popolari o hanno fatto spazio a edifici fatiscenti. Lo stadio da oltre 60mila persone, invece, soffre da anni il declino del tempo e avrebbe bisogno di una ristrutturazione rapida. Quello che manca sono i finanziamenti per rivitalizzare quest’area, un po’ lo specchio di un Paese che da diversi anni è in piena crisi economica e sociale.
Durante i fine settimana Rades si trasforma. Qui giocano le due principali squadre di calcio della capitale e non è anomalo, quando le strade si riempiono di tifosi, assistere a scontri tra ultras e polizia. Negli spazi del grande complesso sportivo vengono praticati anche altri sport come il basket e la pallamano. Da sempre le attività sportive rimangono uno strumento utile per rivendicare maggiori diritti economici, sociali e civili ed è normale, soprattutto nei quartieri periferici di Tunisi, assistere a manifestazioni di gruppi ultras per rivendicare spazi collettivi oggi quasi inesistenti nel paese.

All’improvviso ci hanno picchiato violentemente in sette per almeno 20 minuti. Dopo ci hanno portato in commissariato senza passare dall’ospedale Ali Bouzouida

ERA LA MATTINA DEL 6 MAGGIO 2018 quando Ali Bouzouida, residente a Rades, uscì di casa per recarsi al palazzetto con suo padre e suo fratello: «Quando stavamo rientrando dalla partita di basket siamo venuti a conoscenza che attorno alla struttura erano scoppiati degli scontri con la polizia. Io non avevo avuto più notizie di mio padre e allora ho deciso con mio fratello piccolo di tornare a cercarlo. Abbiamo camminato un po’ e all’improvviso siamo stati circondati dalle forze di sicurezza. In sette hanno cominciato a picchiarci violentemente per almeno 20 minuti. Dopo ci hanno portato direttamente in commissariato senza passare dall’ospedale. Io avevo il volto pieno di sangue mentre mio fratello durante il pestaggio è svenuto».

Le aggressioni e la violenza della polizia sono forse l’unico elemento conduttore che hanno accompagnato il paese da prima della cosiddetta Rivoluzione della libertà e della dignità nel 2011 a oggi. Nonostante un percorso di transizione democratica durato quasi dieci anni e il tentativo di riformare i settori della sicurezza e della giustizia in un paese che non è mai riuscito a garantire processi equi per tutti, oggi quello che si mormora nelle strade è che la Tunisia era e rimane «uno Stato di polizia».

SE DOPO IL COLPO DI MANO del 25 luglio 2021 il presidente della Repubblica Kais Saied ha impresso una nuova svolta autoritaria con il congelamento del parlamento, l’imposizione di una nuova costituzione di stampo presidenziale e lo scioglimento del Consiglio superiore della magistratura, anche il periodo post rivoluzionario è stato ricco di abusi e mancate riforme con il ministero degli Interni a fare da sfondo a un apparato securitario da sempre molto presente su tutto il territorio nazionale. Oggi quell’apparato si fa sentire in maniera sempre più pesante e tocca anche la sfera politica di un paese che dopo il 2011 pensava che alcuni diritti non potessero essere più messi in discussione. Nelle carceri tunisine, infatti, ci sono decine di attivisti, esponenti politici e giornalisti accusati di complotto contro la sicurezza dello Stato che rischiano diversi anni di condanna.

In un momento storico in cui il governo di Giorgia Meloni e la Commissione europea hanno stretto una collaborazione sempre più stretta con la Tunisia per instaurare, almeno a livello di retorica, una logica non predatoria e anticoloniale nei confronti della sponda sud del Mediterraneo, non si può fare a meno di notare come nel corso degli anni l’appoggio di Roma e Bruxelles sia stato fondamentale nel rafforzare le capacità di intervento di un apparato che di fatto opera in maniera autonoma, come sottolinea l’Organizzazione mondiale contro la tortura di Tunisi: «Il ministero degli Interni rimane intoccabile, qualsiasi cosa accada all’esterno, ne prende atto ma fa quello che vuole. Oggi il presidente Saied sta cercando di riprendere il controllo di questo apparato ma il livello di trasparenza rimane quasi nullo».

Volevo sporgere denuncia ma non mi hanno fatto entrare. Ne è nata una discussione e mi sono ritrovata ammanettata nel carcere di Bouchoucha Ahlem Bousserwel

SECONDO QUANTO RICOSTRUITO da il manifesto, dal 2011 a oggi Bruxelles e i singoli Stati membri hanno finanziato con 570 milioni di euro i settori della sicurezza e della giustizia. Una parte, più di 100 milioni, è stata dedicata ai programmi di riforma come dotare le forze di polizia di un codice di deontologia che rispettasse il diritto internazionale, inaugurare commissariati di prossimità per ridurre le barriere tra cittadini e poliziotti, ristrutturare le carceri e informatizzare i procedimenti giudiziari.
Inaugurati rispettivamente nel 2012 e nel 2015, con le nuove disposizioni imposte da Kais Saied il Parj (Programme d’appui à la réforme de la justice) e il Parmss (Assistance technique au programme d’appui à la réforme et à la modernisation du secteur de la sécurité de la République tunisienne) possono considerarsi definitivamente tramontati.

OGGI QUELLO CHE RIMANE in Tunisia è l’appoggio tecnico fornito alle forze di sicurezza di Tunisi da parte dei partner europei come sistemi di sorveglianza, equipaggiamenti tecnici e veicoli. Le riforme e il rafforzamento dello Stato di diritto in Tunisia sono solo la parte minoritaria dei veri interessi della sponda nord del Mediterraneo: «Il programma della riforma della sicurezza da parte dell’Unione europea – spiega Audrey Pluta, una delle massime esperte di tematiche legate alla sicurezza in Tunisia – riflette comunque gli interessi di Bruxelles che sono la lotta all’immigrazione e al terrorismo. Sui 23 milioni di euro per la riforma della sicurezza, 1 milione è stato pensato per la commissione di deontologia».

«Alla fine – prosegue l’autrice de L’action publique de sécurité en Tunisie post-2011: entre l’autonomie et le contrôle de l’action policière – il codice è stato pubblicato nel marzo 2023 ed è interessante paragonare questa versione a quella del 2007 promossa all’epoca da Ben Ali. Se si comparano le due versioni, la prima prevedeva almeno un’istituzione indipendente delle forze di sicurezza. La seconda, di fatto, stabilisce che la polizia “si deve comportare bene”. Già nel 2015 all’interno del ministero degli Interni non c’era già più la volontà di riformarsi e per l’Unione europea è stato un modo, se vogliamo dire, per affermare che uno sforzo sul rispetto dei diritti umani l’avesse fatto».

A oggi l’Unione europea ha all’attivo programmi per più di 140 milioni di euro in materia di sicurezza in Tunisia, soprattutto in ambito migratorio. Un impegno finanziario che nei prossimi anni è destinato ad aumentare sensibilmente, soprattutto dopo la firma del Memorandum d’intesa lo scorso 16 luglio con la Commissione europea.

DALLA SUA CASA in cima a un promontorio che affaccia su uno dei pochi spazi verdi del quartiere, Ali Bouzouida ricorda ancora quando nei primi anni dopo la Rivoluzione aveva lavorato proprio a quei programmi di riforma prima che fallissero. Oggi rimane un volto noto della società civile tunisina. Un aspetto che non può dimenticare quando ripercorre la sua esperienza con la polizia: «Per fortuna c’è un video dell’aggressione che è circolato molto mentre eravamo in commissariato perché io e mio fratello facciamo parte della società civile. Questo ha permesso che la procedura per noi fosse diversa anche se non ci ha impedito di subire una contro denuncia da parte della polizia per aggressione. A oggi non so ancora niente del nostro caso. Per fortuna da quel video di 30 secondi si vede che io e mio fratello eravamo lontani dal palazzetto. Non so come sarebbe potuta finire».

DOPO CINQUE ANNI dall’accaduto, Ali tuttora viene riconosciuto per strada dalle forze di sicurezza, particolare che gli causa ancora grandi inquietudini: «All’inizio ero preoccupato e avevo paura. Oggi non mi sento al sicuro, con la polizia non puoi mai sapere quello che ti capita. Devo fare attenzione a qualsiasi cosa».

Per ogni Ali Bouzouida che grazie anche al radicamento della società civile nel paese è riuscito in qualche modo a garantire una parte dei suoi diritti, ci sono migliaia di persone che nel corso degli anni hanno subito ogni tipo di violazione. Dal 2013 l’Organizzazione mondiale contro la tortura ha assistito più di 900 persone dando tutela legale, medica e sociale. Dai casi di terrorismo sospetto a persone arrestate e aggredite solamente per il loro orientamento sessuale, la lista della repressione è lunghissima e riguarda tutta la società tunisina.
Il ministero dell’Interno è anche l’apparato che nel gennaio 2021 ha arrestato in maniera arbitraria più di 2mila persone – la maggior parte delle quali minorenni – in un momento in cui in Tunisia si manifestava per chiedere maggiori diritti economici e sociali. All’epoca l’atto di forza di Saied non era preventivabile e il ministero era all’apice del suo controllo preventivo sul paese. Un’istituzione securitaria che subito dopo la Rivoluzione del 2011 si è tutelata con la creazione dei sindacati di polizia per garantire privilegi e autonomia rispetto a una collera diffusa da parte della popolazione. Privilegi aumentati dopo il 2015, quando le strutture basilari del paese hanno tremato per la minaccia terroristica e che si è rafforzato quando l’Unione europea e i singoli Stati membri hanno chiesto maggiore collaborazione nel controllo dei flussi migratori. Il risultato finale è stato il pressoché fallimento di qualsiasi tentativo di riforma.

«QUELLO CHE MI FA ARRABBIARE è che ho più volte collaborato con alcuni quadri del ministero dell’Interno e si sono sempre dimostrati collaborativi. Poi d’un tratto tutto è cambiato». Ahlem Bousserwel è la direttrice generale dell’Association Tunisienne des Femmes Démocrates (Atfd) e attivista femminista da sempre. Dal carattere gentile, non fa sconti a nessuno quando si tratta di ingiustizie, personali o che riguardano la collettività, inclusa la polizia: «A fine agosto del 2023 – racconta – mi sono recata in commissariato per depositare una semplice denuncia amministrativa. Un carroattrezzi aveva investito mia sorella e così ho deciso di andare dalla polizia. Erano le due di mattina. Il capo del commissariato non ha voluto farmi entrare e si è rifiutato di farmi esercitare il mio semplice diritto di cittadina. Ne è nata una discussione e mi sono ritrovata ammanettata nel carcere di Bouchoucha».

Bousserwel è una persona abituata a lottare. Lo ha fatto per quanto riguarda la legge 58 per garantire alle donne vittime di violenza una protezione immediata da parte delle forze di sicurezza. Lo ha fatto anche quando non ha potuto esercitare i suoi diritti: «In commissariato i poliziotti continuavano a ripetermi “solo le persone come voi fanno queste cose”. Io ho semplicemente esercitato un mio diritto e mi sono arrabbiata per questo. A volte mi chiedo quante donne hanno passato delle notti in prigione, quante donne non hanno depositato una denuncia perché il commissariato non ha voluto e quante persone possono perdere il loro diritto a causa solamente del loro comportamento. Il fatto che una donna possa denunciare qualcosa è molto malvisto. Basta solo una frase per bloccare tutto: ti dicono “torna domani”. Si tratta di intimidazione, è come se non avessimo la legge 58 e dietro a queste parole c’è potenzialmente un femminicidio».

SECONDO UN RAPPORTO di Amnesty International, almeno il 47% delle donne tunisine ha subito violenza domestica. Aggressioni fisiche e morali che spesso rimangono solo su carta con un accesso quasi inesistente alla giustizia. Prima di riprendere la parola dalla sede dell’Atfd, a poche centinaia di metri dal ministero degli Interni, il volto di Ahlem Bousserwel si fa per un attimo più cupo: «Nonostante pensi che il mio resti un caso isolato, ha comunque a che fare con una grande resistenza a un cambiamento che riconosca il fatto che un poliziotto non deve abusare della sua autorità perché si tratterebbe di un’ingiustizia immensa. L’abuso di potere rimane la cultura generale in Tunisia».

* Questo articolo è stato realizzato con il supporto di «Journalismfund Europe»

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