Ci sono diversi modi per esprimere il proprio malcontento nei confronti dell’operato di un governo. Uno è scendere in piazza ed esprimere la propria rabbia; un altro è decidere di lasciare il paese per garantirsi un futuro degno.

Nelle ultime due settimane in Tunisia è successo tutto questo in uno dei momenti più duri a livello politico, economico e sociale. Gli attori principali sono diversi, le rivendicazioni anche, quello che rimane è un quadro di assoluta precarietà per il piccolo Stato nordafricano. È stato il sindacato più importante del paese, l’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt), a restituire nella loro pienezza le difficoltà tunisine di oggi.

NELLA PRIMA grande giornata di mobilitazione generale dal colpo di forza del presidente della Repubblica Kais Saied del 25 luglio scorso, lo scorso sabato 4 marzo il segretario generale dell’Ugtt non ha usato mezzi termini per descrivere il ruolo che assumerà la sua organizzazione nelle prossime settimane: «Oggi il nostro sindacato viene demonizzato. In realtà siamo l’ultima fortezza tra le forze della società civile. Noi siamo i partigiani della pace sociale. Non siamo promotori della violenza e del terrorismo».

La giornata di sabato, che ha visto migliaia di persone ritrovarsi di fronte alla sede storica dell’Ugtt nel cuore di Tunisi, era un momento atteso da tempo. La risposta è stata ferma e un lungo corteo in tarda mattinata ha percorso le vie del centro di Tunisi per poi sciogliersi di fronte alla sede del governatorato della capitale. Un momento che promette di ripetersi: «I movimenti di protesta proseguiranno per denunciare il deterioramento della situazione sociale e condannare la campagna di denigrazione contro l’Ugtt», ha dichiarato il segretario aggiunto Sami Tahri.

Gli obiettivi dell’unione sono quindi politici, economici e sociali e un lungo applauso è stato dedicato ai militanti arrestati durante la campagna di fermi lanciata da Kais Saied nelle ultime settimane.

Gli arresti sono stati poi al centro di un’altra manifestazione che ha interessato la capitale domenica 5 marzo, per iniziativa del Fronte di salute nazionale, il movimento nazionale di opposizione al presidente della Repubblica dopo la decisione di sciogliere il governo e congelare quasi due anni fa. Due proteste per due organizzazioni lontane dal punto di vista ideologico (il Fronte di salute nazionale ha al suo interno molti componenti di Ennahda, il partito di ispirazione islamica) ma vicine a livello di rivendicazioni.

IN UN QUADRO DI INCERTEZZA economica assoluta – il tasso di inflazione ha superato il 10 % – si è inserita un’altra situazione emergenziale. Si tratta del discorso a tinte fortemente razziste pronunciate lo scorso 21 febbraio dal presidente della Repubblica in cui ha annunciato che la comunità subsahariana non era più la benvenuta in Tunisia, soprattutto coloro che si trovano in una posizione irregolare. Situazione che interessa la maggior parte delle 21mila persone originarie di Costa D’Avorio, Senegal, Mali e Camerun, studenti universitari inclusi.

LE DICHIARAZIONI del responsabile di Cartagine hanno aperto a discriminazioni di ogni tipo con datori di lavoro che hanno lasciato a casa i propri dipendenti, persone che sono state aggredite nelle loro abitazioni e che d’improvviso si sono rivolte alle proprie ambasciate per chiedere il ritorno volontario nel loro paese di origine. Nazioni come la Costa D’Avorio hanno cominciato a organizzarsi e, sempre nella giornata di sabato, le prime 300 persone sono arrivate nella capitale Abidjan, accolti da una frase emblematica da parte del governo: «Tornate a testa alta».

LA RISPOSTA della controparte tunisina, dal canto suo, è stata di completo rigetto delle accuse di xenofobia arrivate nei giorni scorsi anche dai vertici dell’Unione africana. Ieri il ministro degli Esteri Nabil Ammar ha convocato una conferenza stampa per condannare «la dura campagna di fake news alimentata da alcuni media internazionali che dipingono la Tunisia come un paese razzista: in questo modo si vuole fare male al paese. Abbiamo dato le nostre garanzie per tutelare i diritti dei nostri fratelli subsahariani e il discorso del presidente della Repubblica Kais Saied è stato strumentalizzato. Il nostro rimane uno Stato africano».