Trump, un magnate che non impara la lezione cubana
L'Avana Con il discorso di Miami si torna al passato.
L'Avana Con il discorso di Miami si torna al passato.
Parafrasando quello che Talleyrand diceva dei Borboni, si può affermare che Donald Trump non dimentica il suo atteggiamento da magnate, che bada ai suoi interessi più che al bene pubblico e per farlo usa «verità iperbolizzate», ovvero mezze (o intere) menzogne. Non impara – Berlusconi docet – che il linguaggio , le azioni e le responsabilità di un presidente, specie di una nazione leader, devono essere ben differenti da quelle di un imprenditore privato.
ANCHE nelle sue ultime dichiarazioni e decreti presidenziali nei confronti di Cuba Trump ha seguito il suo copione. Quando – in un teatro di Miami dedicato a uno dei componenti della brigada di esiliati cubani, mercenari della Cia, che sbarcarono nel 1961 nella Baia dei porci per tentare di abbattere il governo rivoluzionario di Fidel Castro- ha annunciato che «sono finiti i giorni della politica di Obama nei confronti di Cuba», ha mentito. Della politica di apertura a Cuba iniziata da Obama nel dicembre 2014 resta il nocciolo duro: i rapporti diplomatici e le due ambasciate, degli Usa all’Avana e di Cuba a Washington; i viaggi senza limiti nell’isola dei cubano-americani e soprattutto le loro rimesse (seconda voce del bilancio di Cuba); l’uscita di Cuba dalla lista Usa dei paesi che favoriscono il terrorismo, gli accordi per scambi di contatti su questioni di interesse comune, come lotta alla droga e terrorismo, e la fine della politica migratoria speciale per i cubani definita di «piedi secchi, piedi umidi».
CERTO, il presidente magnate ha ingranato una parziale marcia indietro bloccando di fatto i viaggi individuali di cittadini Usa a Cuba , applicando un embargo integrale contro le imprese controllate dai militari cubani, imponendo una serie di precondizioni di politica interna al governo di Cuba perché possa iniziare negoziati con l’amministrazione Trump. Si tratta, più che di una svolta, di un ritorno al passato, del prevalere di nuovo della logica della guerra fredda e della rivalutazione di uno strumento, il blocco economico, commerciale, finanziario che, oltre che criminale, si è dimostrato catastroficamente (per gli Usa) fallimentare. E osteggiato dalla totalità delle Nazioni dell’Onu, con l’eccezione degli Stati uniti e di Israele. Anche per questo l’Ue ha preso le distanze dal capo della Casa bianca: ieri la Commissione affari esteri del parlamento europeo ha approvato l’Accordo di dialogo politico e di cooperazione economica con Cuba.
COME per la decisione di ritirarsi dall’accordo di Parigi sul cambio climatico, anche nel caso della nuova politica verso Cuba Trump ha dato ascolto al «suo partito», ossia ai suoi sostenitori incondizionati, piuttosto che alle richieste degli americani. Solo che, a detta dell’analista Arturo López-Levy, in questa occasione l’«America first» si è trasformata in «Miami Vice», perché «i suoi», riuniti nel teatro di Miami a spellarsi le mani, erano, come ha denunciato il ministro degli Esteri cubano Bruno Rodriguez a Vienna, i resti della vecchia mafia anticastrista, dei terroristi alla Posada Carriles e dei loro rappresentanti in Campidoglio. La maggioranza dei cittadini statunitensi – e degli stessi elettori repubblicani (62%) – si è espressa per la continuazione della politica di normalizzazione con Cuba.
TRUMP si è detto disposto a fare di tutto in favore dei cubani. Meno che ascoltarli. Nel suo discorso a Miami, il presidente magnate ha affermato che le misure adottate da Obama hanno solo pregiudicato il popolo dell’isola mentre hanno favorito il vertice comunista. Secondo l’inchiesta attuata, senza l’approvazione del governo dell’Avana, da Bendixen-Armandi, più del 90% dei cubani approvava la politica verso Cuba di Obama. Fra questi, il mezzo milione di piccoli imprenditori che dovrebbe costituire quella sorta di classe media che può dinamizzare la situazione politica nell’isola. E che ha condannato le nuove direttive di Trump che colpiscono il settore del turismo del quale vive la maggioranza dei cuentapropistas.
«La strategia basata sull’ingerenza di Trump è destinata all’insuccesso» è stata la reazione del governo cubano. Invece che dividere lo schieramento governativo colpendo le Forze armate rivoluzionarie (Far), che gestiscono più del 60% dell’economia nazionale, il discorso di Trump e l’«indegno» scenario in cui è avvenuto hanno ottenuto l’esatto contrario. «È il sogno della linea dura qui», ha commentato all’Ap un giornalista cubano. Ovvero degli “ortodossi” ( o “talebani”) del Partito comunista che avevano visto con sospetto e di fatto osteggiato le aperture di Obama, giudicate come una sorta di mela capitalista (avvelenata) che il presidente aveva offerto ai “pragmatici” del governo. «In un’ora (Trump) ha insegnato ai cubani come funziona la politica negli Usa… Il risultato di questa politica è che renderà più forte la leadership rivoluzionaria e dà ragione ai suoi argomenti» ha dichiarato Iroel Sánchez, sorta di guardiano ideologico dell’ortodossia nella rete e nei mass media cubani.
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