Dal jihad ai ministeri. Per un primo bilancio della transizione dei Talebani dall’insurrezione al governo abbiamo intervistato Antonio Giustozzi, Senior Research Fellow al Royal United Services Institute e tra i più autorevoli esperti del movimento ora guidato da Haibatullah Akhundzada, «o da chi ne fa le veci».

Autore di molti libri – tra cui The Taliban at War 2001-2021 (Hurst Publishers) – per Giustozzi la prima fase della lotta per il potere è segnata dalla tesa competizione tra gli Haqqani, che hanno anche «invitato l’ex presidente Ashraf Ghani a tornare in Afghanistan», e i Talebani di Kandahar.

Oltre a risorse e posti-chiave, le due fazioni maggioritarie si contendono il territorio ideologico del nuovo Emirato, in una lotta per l’egemonia culturale di cui pagano le conseguenze innanzitutto le donne afghane.

La discussione con Giustozzi prende avvio dalla “cronaca”: l’uccisione il 31 luglio scorso da parte della Cia di Ayman al-Zawahiri, il numero uno di al-Qaeda, ospite del ministro di fatto degli Interni, Sirajuddin Haqqani. in un quartiere residenziale di Kabul.

Che conseguenze avrà per al-Qaeda e per il rapporto con i Talebani l’uccisione di al-Zawahiri, trovato a Kabul dove decenni di clandestinità?

La sorpresa non è che al-Zawahiri fosse in Afghanistan, ma a Kabul. Era rischioso: da mesi si sapeva di jihadisti stranieri, arabi e centro-asiatici, nella capitale. Era prevedibile l’allerta delle agenzie di sicurezza di vari governi. Per al-Qaeda il problema ora è la successione. Al-Zawahiri ha avuto successo, nei primi anni della leadership, a dare coerenza organizzativa al gruppo e a convogliare fondi, per esempio verso la Siria. Ma poi lì il gruppo pro-qaedista al-Nusra l’ha accoltellato alle spalle, prima distanziandosene, poi rompendo. Molti qaedisti guardano all’Afghanistan tramite lenti siriane. Da anni c’è una forte diffidenza. Già c’era verso il precedente leader dei Talebani, Akhtar Mansour, poi verso il successore e attuale leader, Haibatullah Akhundzada. Anche i vecchi amici, i Talebani dell’Helmand, sono visti come opportunisti. Perfino gli Haqqani si sono distanziati da al-Qaeda, ma per i qaedisti rimangono i più affidabili.

Gli americani hanno eseguito l’operazione. Ma come hanno individuato al-Zawahiri? Qualcuno sospetta degli stessi Talebani del Sud, i kandahari…

Potrebbero averlo individuato con la loro rete, ma è plausibile che siano stati aiutati. I sospetti vanno in due direzioni: i pachistani, che hanno una presenza in Afghanistan e tra gli Haqqani e che stanno negoziando un prestito cruciale con il Fondo monetario internazionale. O i Talebani kandahari. Oltre alla cerchia ristretta degli Haqqani, della presenza di al-Zawahiri sapevano solo due-tre alti funzionari dell’Emirato, tra cui mullah Yaqub, il ministro della Difesa (e figlio del fondatore dei Talebani, mullah Omar, ndr). Gli Haqqani lo accusano. C’è una rivalità estrema.

Se c’è stata una “soffiata”, i rapporti tra l’Emirato e Washington miglioreranno e una parte dei Talebani si accrediterà come affidabile. Ma se non c’è stata, è un bel guaio per l’Emirato, già isolato.

Le circostanze non sono chiare. L’annuncio non è stato dato dagli Haqqani, ma dal loro nemico interno, Zabihullah Mujahed, il portavoce dell’Emirato. Ha condannato la «violazione della sovranità», ma lasciando intendere che non gli dispiacesse così tanto. Per gli Haqqani è un’umiliazione: non sono capaci di proteggere gli amici e ne va della loro immagine esterna. Per i Talebani di Kandahar c’è un imbarazzo di fondo, perché c’è una responsabilità comune dell’Emirato, ma è l’occasione per contenere gli Haqqani. D’ora in avanti per Sirajuddin sarà meno facile farla da padrone. Neppure può forzare la mano. Haqqani e Talebani kandahari sono come un pentapartito, alleati ma divisi.

In un suo articolo per l’ultimo dossier Ispi sull’Afghanistan scrive che, a dispetto degli attriti interni, i Talebani non se la sono cavata così male quanto a governance e capacità di generare risorse. Ci spiega meglio?

I Talebani sono strutturalmente divisi. Non possono avere né un leader forte che decida, né una struttura decisionale alla Politburo. Parliamo di Afghanistan e di un movimento largamente pashtun e rurale. Mullah Akhtar Mansour, che nel 2015 ha provato ad applicare un modello centralizzato e autoritario, ha quasi distrutto il movimento e ha fatto marcia indietro. Quanto alle entrate, derivano soprattutto da tasse e dazi. Spremono quanto possibile. Lavorano anche su nuovi tender per le miniere, per avere più royalties. Ma è una misura controversa, che incontra resistenze, perché taglia fuori molti interessi. Non è chiaro, invece, cosa vogliano fare dell’apparato burocratico, che andrebbe smantellato e rifondato da zero. Al tempo della Repubblica islamica solo Ashraf Ghani, alle Finanze, ha snellito e reso più efficiente il ministero. Gli Haqqani, che gli devono molto perché in pratica gli ha consegnato Kabul, lo hanno invitato a tornare in Afghanistan. Lui, prima indeciso, ha rifiutato. I Talebani stanno cercando di attrarre consiglieri e funzionari esperti. Qualche pashtun nazionalista è tornato dall’estero.

Che tipo di Stato sarà l’Emirato? C’è un disegno istituzionale chiaro?

La proposta più chiara è in un libro di Abdul Hakim Haqqani, ministro della Giustizia. Ha studiato alla madrasa Haqqania in Pakistan, ma è un talebano del Sud, già vicino a mullah Omar. Il testo apre la lotta per l’egemonia culturale dell’Emirato e va letto dentro la controffensiva del Sud. Spaventati dall’ascesa degli Haqqani sul policy-making, i Talebani del Sud sono diventati gramsciani. Lottano per l’egemonia culturale. Da qui, anche gli ulema scatenati sulla questione delle scuole per le ragazze. Il libro combina elementi ideologici diversi, non solo deobandi. C’è per esempio l’idea, alla Sayyid Qutb, che l’unico vero Stato islamico sia l’Emirato. C’è una visione dello Stato minimalista. Non è previsto welfare. Lo Stato deve gestire solo giustizia, difesa, politica estera, l’educazione quanto basta. Via libera al business. Invece gli Haqqani e i Talebani dell’est, tra cui molti già vicini a Gulbuddin Hekmatyar, hanno un approccio più simile ai Fratelli musulmani: welfare, ruolo pro-attivo dello Stato nell’educazione, anche per le donne. In futuro, il territorio ideologico del nuovo Stato sarà ancora più conteso.

Quanto durerà l’Emirato? Le lotte intestine quanto lo indeboliscono?

Le lotte interne per il potere sono strutturali, ma i Talebani hanno meccanismi flessibili, spazi di manovra per i dissidi. Il problema è nel passaggio dall’insurrezione al governo. Il disegno non è completo. Non è stato istituzionalizzato il Consiglio supremo del primo Emirato, presieduto dall’emiro. A Kandahar c’è il «partito», a cui si ricorre quando c’è un problema che gli ulema non riescono a risolvere.

Il partito coincide con la Rahbari shura, l’organo collegiale di indirizzo e decisione attivo nella fase del jihad?

Ancora non c’è distinzione tra il partito-movimento, dunque la struttura organizzativa, e la struttura statuale. Dal 1996, il nome Emirato islamico indica entrambi. Il disegno è incompleto. Il ruolo di Haibatullah e della Rahbari shura è occasionale. Haibatullah non decide molto. Mullah Omar era molto più attivo. C’è chi spinge, ma si rinvia il disegno complessivo per le divisioni. Le lotte per il potere continueranno. La prima fase si è chiusa con la sconfitta definitiva dei Talebani uzbechi. Rimane alta la tensione tra gli Haqqani e i Talebani di Kandahar. C’è rivalità, ma c’è anche una diversa concezione dello Stato. Dovrebbero costruire un sistema istituzionale – non aperto, ma neanche monocratico – che consenta alle posizioni maggioritarie di giocarsela. Un modello simile a quello iraniano: una competizione limitata a chi accetta un principio base, unificatore, che in questo caso ovviamente non può essere la vilayat-i faqih (la tutela del giurista) degli sciiti.