Animatore delle prime rassegne italiane sul cinema latinoamericano all’inizio degli anni Sessanta, che segnarono anche la scoperta di tanti cineasti brasiliani in Europa, Gianni Amico è stato uno dei principali estimatori e promotori del Cinema Novo brasiliano. Figura polimorfa la sua: non solo curatore di omaggi e retrospettive (fu sua la prima rassegna italiana sulla Nouvella Vague francese nel 1964) ma anche cinefilo appassionato, cultore di musica jazz, collaboratore di Roberto Rossellini e sceneggiatore di Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci. Poi, inevitabile probabilmente, il passaggio alla regia a metà degli anni Sessanta quando – dopo i primi cortometraggi, tra cui il bellissimo Appunti per un film sul jazz girato a un festival musicale a Bologna – tra il 1966 e il 1967 dirige tre documentari prodotti dalla Rai: Giovani brasiliani, sul movimento studentesco, Musica Popular Brasileira e, infine, Tropici, presentato alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro nel 1968 e proiettato al Cinema Ritrovato di Bologna qualche giorno fa. Per la prima volta in versione restaurata e in lingua originale con i sottotitoli in italiano.

Un amore, quello per il Brasile, che sarà una costante della vita artistica di Amico (e che lo vedrà anche collaborare con Glauber Rocha nel film del 1970 Il leone a sette teste) e che travalicherà i confini non solo geografici (a detta di tutti Amico era un vero e proprio ponte di collegamento fra Italia e Brasile) ma anche cinematografici fino all’organizzazione nel 1983 della rassegna musicale Bahia de todos os sambas. Allestita al Circo Massimo di Roma nell’ambito delle iniziative dell’Estate romana e alla quale parteciparono grandi nomi della musica brasiliana come Gilberto Gil, Caetano Veloso, Gal Costa, Naná Vasconcelos e João Gilberto. Un evento che Amico, insieme ai sodali Leon Hirszman e Paulo Cesar Saraceni, filmò con l’intenzione di creare un grande film musicale, ma che verrà completato e montato soltanto nel 1996 dopo la morte del regista avvenuta a Roma nel novembre del 1990.

Realizzato nel clima di grande interesse per l’America Latina che ha animato la vita culturale italiana tra gli anni Sessanta e Settanta, Tropici inizialmente è concepito come una riproduzione, per immagini in movimento, del viaggio – da San Paolo all’entroterra fino a raggiungere l’Amazzonia – compiuto dall’antropologo Claude Lévi-Strauss e raccontato nel libro del 1955 Tristi tropici. Amico però ben presto si rende conto delle difficoltà logistiche di una simile impresa. Accorcia le distanze dunque e inverte l’itinerario, muovendosi dall’entroterra fino alla costa e raccontando l’odissea di una famiglia di contadini (il marito Miguel, la moglie Maria e i due figlioletti) diretta verso San Paolo in cerca di lavoro.

Unendo idealmente l’arido sertão nordestino del Brasile del pionieristico Vidas secas di Nelson Pereira dos Santos – film omaggiato nella sequenza d’apertura con il pascolo dei bovini – con il mediometraggio Viramundo di Geraldo Sarno, Gianni Amico lavora sull’opposizione campagna/città, amalgamando le tensioni formali del primo Cinema Novo con le istanze della Nouvelle Vague in un gioco di rimandi che offre un interessante cambio di prospettiva visto che, normalmente, erano i film brasiliani a dialogare con il cinema europeo e non viceversa. Ibridando documentario e finzione, Gianni Amico alterna le peregrinazioni della famiglia protagonista, filmate con lunghi piani sequenza che ricordano il documentario osservazionale, ad alcuni inserti composti da riprese, voice over e cartelli per esporre le condizioni socioeconomiche del Brasile. Il tutto postulato in un’ottica onnisciente che scruta la vita di coloro che, a suo avviso, sono del tutto ignari delle ragioni che determinano la propria esistenza. Questa duplice anima è funzionale dunque al discorso antimperialista di Gianni Amico che cerca di mettere in relazione la realtà brasiliana con quella internazionale, concentrandosi sui rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri.

In sintesi, il film cerca di esporre lo spettatore alle condizioni in cui operano il capitale, la proprietà, il lavoro salariato e il mercato mondiale, proponendo attraverso il racconto del viaggio della famiglia protagonista un itinerario geografico, storico ed economico. Lo spostamento spaziale si propone inoltre come una metafora, anche temporale, che documenta le tappe di una «evoluzione storica» che, partendo da Nord-Est, fa assumere all’interno dei confini nazionali la condizione arcaica con cui il Brasile viene identificato in Europa. Di conseguenza, i protagonisti non diventano soggetti storici, non sono agenti ma prodotti della Storia, e le loro azioni obbediscono a specifiche condizioni materiali. Tropici inoltre non mira al coinvolgimento dello spettatore ma piuttosto elabora una personalissima teoria che vuole far luce sui fattori socio-economici che determinano questa «psicologia del sottosviluppo». A tale scopo, Amico opta per la tecnica del distanziamento, interrompendo il flusso narrativo (ma anche quello musicale che alterna Mozart alla musica brasiliana) e sviluppandosi su un duplice livello sia narrativo che esplicitamente didascalico. Nel suo insieme, il film non solo informa lo spettatore sulle condizioni storiche e sociali in cui si sviluppa il dramma ma crea un nesso consequenziale tra la micro storia dei protagonisti e quella macro, animata dal capitalismo internazionale. Così Miguel e la sua famiglia diventano marionette di giochi economici determinati dai rapporti tra capitale e lavoro, dove lo sfruttamento del nord-est rurale da parte del Brasile urbano riproduce lo sfruttamento del capitalismo periferico da parte di quello centrale. Gianni Amico inoltre sceglie di interferire il meno possibile con la realtà ripresa dalla sua macchina da presa, optando per lunghi piani sequenza, ampi silenzi e pause narrative in cui la mdp vaga nello spazio soffermandosi sui dettagli dell’ambiente. In un metodo di indagine della realtà che ricorda la tradizione cinematografica del Neorealismo (e che sembra avvicinarsi anche al cinema etnografico di Jean Rouch) ma che, in alcuni lampi abbaglianti, sembra mutuare anche la lezione delle grandi epopee western/familiari di John Ford.