Internazionale

Trincee esauste a scuola di odio

Il comandante NazarIl comandante Nazar – Niccolò Celesti

Ucraina La battaglia perduta di Avdiivka ha lasciato il segno ma il tempo che passa lascia tracce più profonde. «I russi» ormai sono bombe, gelo, fame e morti, e un’ipoteca lunga generazioni che la stanchezza della guerra non potrà seppellire

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 24 febbraio 2024
Sabato AngieriInviato a Noovoleksandrivka (Donetsk ucraino)

«In un istante ho perso tutto, il mio migliore amico, il mio mondo… mio fratello» racconta piano il comandante Nazar. «Non c’è dolore più grande», dice. «Dopo ho provato a prendere una pausa e a tornare a casa, ma non riuscivo a dormire, dovevo prendere delle pasticche, mi sembrava di non essere più buono a nulla. E sono tornato alla guerra». Non per vendetta, ma quasi per fatalità.

Perché se c’è una cosa che non si può non imparare in guerra è che la massima non sbaglia: i morti chiamano sempre altri morti.

Due anni di caduti pesano sull’est Europa come un’ipoteca per chissà quante generazioni. Figli cresciuti nell’odio di una parola che sentono solo ripetere insistentemente: russi. Chi sono? Sono le bombe che squassano la terra e mutilano i palazzi, sono il gelo d’inverno e la mancanza di cibo. Sono gli assassini di qualcuno che amavi.

Per la maggior parte di questi bambini l’odio è una via già segnata. Ma anche per chi è uomo oggi e non ha avuto lo stesso trauma infantile l’apprendimento è rapido e indelebile, seppure in una maniera completamente diversa.

Il punto sta nel comprendere la differenza tra una vita che si è formata senza l’esperienza della guerra e una che ne ha patito gli stigmi in tenera età.

Una coppia si saluta alla stazione di Leopoli allo scoppio della guerra, foto di Hesther Ng/SOPA Images/LightRocket via Getty Images

IL COMANDANTE Torf nella primavera del 2022 mi diceva a bassa voce e lontano dalla truppa che sperava che i suoi uomini non vedessero mai il sangue «perché dà assuefazione». A lui piaceva, ne soffriva ma gli piaceva, era evidente. Aveva lasciato tutto per quel sangue e si trovava ad addestrare un battaglione di volontari originari dei Carpazi nei pressi di Izyum. Capiva di essere in qualche modo malato di un cancro che lo corrodeva dentro e non voleva contagiare gli altri. Ma poi nel momento della battaglia si diceva che fosse implacabile, addirittura crudele.

QUANTI BATTAGLIONI di volontari sono passati sulle strade di terra nera del Donbass dall’inizio della guerra portando ragazzi che a malapena avevano visto ammazzare un animale in campagna e che si ritrovano ora a raccontare degli assalti alle posizioni russe o delle nottate di terrore ad aspettare rinforzi.

Quelli che sono morti se sono fortunati «sono raccontati», come si dice, per loro vivono le lacrime delle famiglie lontane.

Come Andryi, che il giorno prima di saltare in aria a Mykolayiv insieme a metà del suo reparto mi aveva regalato un elmetto militare dato che io non lo avevo. «Diciamo che me lo riporti quando la guerra finisce» aveva detto ridendo, dato che teoricamente non si possono far uscire dotazioni militari da una base. Mentre parlavamo mi aveva mostrato dal cancello la voragine del potente missile russo che aveva colpito la piazza d’armi. «Ma perché non vai via?» era stata l’esortazione più che la domanda. «Ma vaaa, questi non sono buoni a niente».

La verità è che la decisione di evacuare sarebbe spettata al comando generale, che non l’ha data. Il giorno dopo Andryi è diventato una lapide con una foto in bianco e nero e Svetlana ancora lo piange.

Il funerale di un soldato ucraino a Kiev nel 2022, foto Getty Images

NAZAR NON È COSÌ, la sua era più fascinazione mista a un vago ideale di patria. Nato in Ucraina ma portato da piccolo in Argentina dai genitori, aveva passato quasi tutta la sua esistenza sulle Ande. Il fratello maggiore Argo per lui è sempre stato un modello e per questo quando la guerra è scoppiata e l’altro aveva deciso di partire, in famiglia avevano litigato perché «due figli in guerra non è possibile».

In un istante ho perso tutto, il mio migliore amico, il mio mondo, mio fratello. A casa non dormivo più, prendevo pasticche, non ero più buono a nulla. E sono tornato alla guerraComandante Nazar

Alla fine l’accordo era stato che sarebbe partito prima il maggiore e poi l’avrebbe raggiunto Nazar, ma che fino a quando quest’ultimo non fosse arrivato l’altro non sarebbe andato al fronte. «E ha mantenuto la sua promessa, siamo partiti insieme dopo il mio addestramento».

All’inizio nella Legione internazionale, alla quale Nazar fa un cenno di passaggio, segno che non ne vuole parlare. Troppi morti inutilmente, «carne da macello» avevano scritto su un documento anonimo pubblicato addirittura dal Kyiv post. «C’eravamo perché parlavamo spagnolo e potevamo tradurre» precisa. Poi il battaglione di difesa territoriale dei Carpazi. Irpìn, Bakhmut, Kupiansk i nomi che elenca sono tutte battaglie campali di questa guerra.

E poi? «Vicino a qui, in questi boschi, durante un’azione offensiva ho sentito chiamare alla radio; parlavano in spagnolo… avevo già capito. Sono io che ho detto al dottore di smetterla con la rianimazione, non usciva sangue fuori, vuol dire che l’emorragia era tutta interna». Argo aveva i polmoni perforati. Dal nome di battaglia del fratello hanno creato una loro unità, che ora Nazar dirige e che continua a combattere in prima linea.

Slovyansk, una donna davanti a un edificio distrutto durante il conflitto del 2014
Slovyansk, una donna davanti a un edificio distrutto durante il conflitto del 2014, foto Ap /Vadim Ghirda

IN QUESTI GIORNI confusi e mesti per l’esercito ucraino il tratto più comune a tutto il fronte è una profonda stanchezza. Dovunque c’è «stanchezza di guerra» come diceva Rigoni Stern parlando dei suoi alpini in Russia. Si percepisce dovunque, Avdiivka è solo il nome di una battaglia persa. Ma due anni di vita tra una trincea e l’altra, tra una stagione e l’altra chi te li restituisce?

Il comandante Pavel a Siversk si commuove ogni volta che guarda il video della figlia che gli chiede se ha mangiato. Non la vede da due anni. Sasha aveva i genitori a Severodonetsk e non li vedrà più. Potremmo riempire tutti i giornali del mondo con le storie di questa gente, ma più passa il tempo e meno sembrano importare, il racconto si perde nell’analisi strategica o geopolitica. Nella necessità di annientare Putin, di proteggere i satelliti dalle nuove armi nucleari, di produrre più armi tutti e subito altrimenti la Russia si sentirà autorizzata…

DOV’È QUELLA VOCE che mentre i leader mondiali depongono le corone di fiori di rito a Kiev e invocano la «vittoria» ricordi i nomi di chi da decenni di calcoli simili, prima che dalle bombe, è stato seppellito? Al momento non si sente. Al fronte, tuttavia, i militari sentono forte l’altra voce: quella dei morti.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento