Domenica pomeriggio durante la messa, nella chiesa protestante di Kasindi, cittadina del Nord Kivu al confine con l’Uganda, è esploso un ordigno causando la morte di 17 persone e il ferimento di altre 39. L’attentato arriva dopo che giovedì l’ex presidente keniota Uhuru Kenyatta, incaricato dalla Comunità dell’Africa orientale di fare da mediatore di pace nel conflitto tra esercito della Repubblica democratica del Congo (Rdc) e la milizia ribelle M23, aveva dichiarato che «i leader dell’M23 accettano di continuare il ritiro ordinato e un rigoroso cessate il fuoco». Notizia che faceva intravedere un possibile abbassamento della tensione nella ricca regione mineraria congolese. L’M23 però è solo una delle formazioni paramilitari presenti sul terreno.

LA STRAGE È STATA RIVENDICATA dale Forze democratiche alleate (Fda), una milizia ribelle ugandese che dal 1990 si è stabilita entro i confini congolesi nella regione del Nord Kivu. Nel 2014 gli eserciti della Rdc e dell’Uganda hanno lanciato un’operazione congiunta contro le Fda, che nel 2019 si affiliano allo Stato islamico e da quel momento puntano più su azioni terroristiche contro la popolazione che sugli scontri diretti. Da aprile 2022 a oggi più di 400 i civili sono morti in attacchi compiuti dalle Fda e rivendicati dallo Stato islamico.

Se da parte ugandese sembra esserci la volontà di collaborare con Kinshasa per fermare le azioni omicide delle Fda, tra Ruanda e Rdc sembra avvicinarsi sempre di più lo scontro diretto, con uno scambio continuo di accuse. Lunedì scorso il presidente ruandese Paul Kagame ha detto in un discorso alla camera alta del parlamento che «il Ruanda non può più ospitare i rifugiati in fuga dalla Rdc», un «fardello» che non ha evitato a Kigali «insulti e maltrattamenti da parte della Comunità internazionale». La quale ormai da mesi, con il sostegno di diversi report di esperti Onu, dice che il Ruanda sta aiutando i ribelli dell’M23, una tesi sempre respinta da Kigali che invece accusa la vicina Rdc di perpetuare l’instabilità nelle regioni orientali del paese per scopi politici.

IL PRESIDENTE RUANDESE ha criticato anche la gestione della crisi umanitaria nell’est del Congo, rivolgendosi alla Comunità internazionale: «O porti i rifugiati via da qui e li porti dove vuoi, o tornano in Congo e li proteggi lì».
Di contro Kinshasa accusa Kigali di armare i rifugiati ruandesi in territorio congolese. I due paesi infatti ospitano reciprocamente diverse migliaia di rifugiati, 77mila cittadini congolesi sono rifugiati in Ruanda e 240mila, secondo Kinshasa, sono i ruandesi rifugiati nella Rdc.

GIOVEDÌ LA PORTAVOCE del governo ruandese, Yolande Makolo, ha riferito che il Ruanda non ha «alcuna intenzione di espellere o respingere i rifugiati della Rdc», accusando invece i media di «travisare l’appello di Kagame alla responsabilità e alla leadership». «Il presidente si riferiva alla palese ipocrisia nel criticare il Ruanda, da una parte incolpato per il fallimento dello stato nella Rdc e dall’altra dovrebbe accogliere chi fugge dalle conseguenze di quel fallimento».

Dalla ripresa dell’offensiva dell’M23 nel Nord Kivu, i due paesi si sono continuati ad accusare a vicenda di sostenere i gruppi ribelli avversari: il Ruanda l’M23 e la Rdc le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), gruppo formatosi nel 1994 e resosi responsabile del genocidio della popolazione Tutsi. La presenza di questa formazione ribelle, considerata una minaccia, entro i confini della Rdc giustifica, secondo Kigali, le incursioni dell’esercito ruandese in territorio congolese. Incursioni che, sempre secondo il Ruanda, non sono in nessun modo a sostegno dell’M23.

LA PERMEABILITÀ DEI CONFINI della Rdc rende i rapporti diplomatici sempre più tesi con i paesi confinanti che vedono le milizie ribelli scappare nelle regioni orientali del Nord Kivu e dell’Ituri per riorganizzarsi e compiere attacchi transfrontalieri nei territori di appartenenza. Con i civile in balia di questi gruppi armati che trovano il loro sostentamento economico proprio nello sfruttamento della popolazione. Questa situazione giustifica il dispiegamento di contingenti militari di diversi paesi, su un territorio già fortemente militarizzato dalla presenza di più di 120 diverse sigle di gruppi ribelli.