Tredici fatti, un unico sabotaggio: «Così l’Egitto vuole impedire il processo»»
Giulio Regeni La ricostruzione in aula del pm Colaiocco, dalle false testimonianze al rifiuto di consegnare le prove. Fino all'ultimo atto: 200 pagine della Procura egiziana per confutare le indagini italiane
Giulio Regeni La ricostruzione in aula del pm Colaiocco, dalle false testimonianze al rifiuto di consegnare le prove. Fino all'ultimo atto: 200 pagine della Procura egiziana per confutare le indagini italiane
Tredici punti che racchiudono anni di indagini in condizioni difficilissime. Il pm Sergio Colaiocco ci impiega un’ora e mezza per mettere in fila gli elementi raccolti dal team investigativo italiano e ricostruire quella che definisce «l’azione complessiva di quattro soggetti e di colleghi ufficiali della National security egiziana (Nsa) dal febbraio 2016 a qualche mese fa» al fine di «bloccare o rallentare le indagini e impedire il processo in Italia».
Nessuna prova regina, specifica Colaiocco, ma elementi indiretti da valutare complessivamente. È insieme che assumono senso: «13 fatti che indicano la volontà di sottrarsi al processo».
IL FASCICOLO NASCOSTO. Dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, il 3 febbraio 2016, la Nsa ha sempre negato un proprio coinvolgimento e indotto il ministro degli interni Ghaffar a dichiarare che «Regeni non è mai stato fermato dalla polizia egiziana». Mesi dopo le stesse autorità egiziane ammetteranno l’esistenza di un fascicolo della Nsa sul ricercatore a seguito della denuncia del sindacalista Abdallah.
IL FALSO TESTIMONE. Nel febbraio 2016 l’ingegnere Mohammed Fawzi dice di aver assistito a un litigio tra Regeni e una persona, il 24 gennaio (il giorno prima del sequestro) dietro il consolato italiano. La Procura di Roma dimostrerà che in quel momento il giovane era a casa a vedere un film in streaming. Fawzi ritratterà dicendo di aver mentito su richiesta di un funzionario della Nsa.
INFILTRATO NELL’INDAGINE. Uno dei quattro imputati, il colonnello Helmi, è entrato nel team investigativo egiziano, secondo la Procura di Roma al fine di condizionarne l’esito. Si è poi scoperto che fu Helmi a ordinare le perquisizioni a casa di Giulio, nelle settimane precedenti al sequestro.
I VIDEO DELLA METRO. La Procura chiede i video della metro del Cairo la prima volta l’8 febbraio 2016. La Nsa li sequestra solo settimane dopo (ogni 15 giorni le telecamere sovrascrivono le immagini). Il team italiano chiede di visionarli comunque con l’aiuto di una società tedesca esperta nel recupero di video sovrascritti. L’Egitto li consegnerà solo due anni dopo: manca il lasso di tempo dalle 19.40 alle 20.10 del 25 gennaio 2016. Il cellulare di Regeni ha agganciato per l’ultima volta una cella alle 19.51.
LA BANDA. Il 24 marzo 2016 agenti della Nsa uccidono in uno scontro a fuoco cinque cittadini egiziani, accusandoli di aver rapito e ucciso Regeni. Tre mesi dopo la stessa magistratura egiziana iscrive gli agenti nel registro degli indagati per omicidio premeditato.
IL PASSAPORTO. Un testimone afferma di aver visto Helmi con il passaporto di Regeni in mano prima di perquisire la casa di uno dei cinque egiziani uccisi. Helmi fingerà poi di aver trovato lì il documento.
I TABULATI. L’Egitto non ha mai consegnato, adducendo motivi di privacy, il traffico telefonico nelle zone di scomparsa di Giulio e di ritrovamento del corpo, il 25 gennaio e il 3 febbraio, traffico utile a verificare l’eventuale presenza nei due luoghi delle stesse persone.
ROGATORIE INEVASE. Delle 64 rogatorie presentate dall’Italia, 39 non hanno avuto risposta. Nel caso delle altre, secondo la Procura, i documenti forniti sono errati o manipolati.
LA NOTA INTERPOL. Le autorità egiziane hanno più volte fatto riferimento a una nota dell’Interpol secondo cui Giulio aveva fatto ingresso in Turchia e in Israele (alla base dell’accusa di lavorare per dei servizi stranieri). La presunta nota non è mai stata consegnata alla Procura di Roma.
I VESTITI DI REGENI. Non sono mai stati consegnati al team italiano, che non ha potuto condurre esami del Dna.
INDAGINI SOLITARIE. Dopo l’iscrizione nel registro degli indagati dei quattro egiziani, Il Cairo ha interrotto ogni collaborazione con la magistratura italiana. Ha però proseguito nelle indagini senza condividerne i risultati.
IL DOMICILIO. L’Egitto non ha mai risposto alla richiesta di elezione del domicilio degli imputati, mossa tramite rogatorie, interventi dei primi ministri italiani e una trentina di incontri dell’ambasciatore italiano al Cairo con il ministro degli interni egiziano.
LA MEMORIA DIFENSIVA. Due settimane dopo la chiusura delle indagini in Italia, a dicembre 2020, la Procura generale egiziana ha pubblicato un rapporto di 200 pagine definito da Colaiocco «una memoria difensiva dei quattro imputati» dove analizza punto per punto le prove raccolte per confutarle.
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