Tre giornate intense per Papa Francesco in Ungheria
Visegrad e oltre La rubrica sui sovranismi dell'Est Europa. A cura di Massimo Congiu
Visegrad e oltre La rubrica sui sovranismi dell'Est Europa. A cura di Massimo Congiu
Papa Francesco torna in visita in Ungheria dopo due anni dal suo precedente viaggio in terra danubiana. Ci era stato nel settembre del 2021 per il Congresso eucaristico mondiale. L’incontro con il primo ministro Viktor Orbán è il momento di particolare interesse di questa visita pastorale molto attesa nel paese. Di particolare interesse visto che tra i due non mancano certo gli argomenti di discussione.
Il premier chiama il governo che presiede conservatore e cristiano e parla di identità culturale cristiana europea che vede in pericolo e che a suo avviso va difesa. Difesa dai flussi migratori di genti portatrici di culture diverse, di musulmani “ad esempio”.
Proprio in particolare sulle questioni riguardanti l’accoglienza a migranti e profughi i punti di vista dei due leader hanno mostrato di divergere in modo rilevante. Per il papa l’accoglienza è un dovere morale che risponde al messaggio cristiano di carità e solidarietà, per “l’uomo forte d’Ungheria” e per i suoi fedelissimi le cose stanno diversamente. Orbán ha avuto modo di chiarire in sedi pubbliche di non riconoscere il diritto di migrare tra quelli fondamentali dell’uomo. Possiamo dire, semplificando, che la sua posizione in tale ambito è del tipo “aiutiamoli a casa loro, ognuno a casa sua, l’Europa agli europei, l’Ungheria agli ungheresi”.
Per lui e per i suoi collaboratori e sostenitori quello migratorio non è un fenomeno positivo da nessun punto di vista; più precisamente il nostro non crede nella convivenza fra genti di cultura diversa. A suo avviso la cosa non solo non può funzionare ma porta disagi e pericoli e cita a questo proposito le tensioni interetniche esistenti ad esempio a Parigi, a Londra e via discorrendo.
Il premier giudica il multiculturalismo un’illusione, il cosmopolitismo un non valore, un’invenzione di certo mondo intriso di liberalismo che non concepisce l’esistenza di interessi nazionali. Un mondo i cui riferimenti sono del tutto estranei, a suo avviso, ai valori più autentici della sua Ungheria che sarebbe tutta “Patria, Chiesa e Famiglia”.
In tutto questo c’è molta propaganda, certo. Nel 2015, all’epoca in cui i flussi migratori verso l’Europa avevano raggiunto una consistenza di particolare rilievo e assunto carattere emergenziale, Orbán lanciò l’allarme invasione e presentato i migranti come un pericolo ai suoi connazionali.
Un pericolo che solo lui avrebbe potuto gestire blindando le frontiere per proteggere il territorio nazionale e i suoi abitanti. In questo modo indicò da una parte una minaccia – i migranti musulmani – e dall’altra lo strumento di difesa dalla medesima – il suo governo che tra l’altro in quel periodo si era posto il problema di recuperare consensi intercettati da Jobbik. Questa propaganda era quindi frutto di un calcolo politico e ha mostrato di funzionare a lungo. Finora, quindi, il sistema di potere creato e guidato da Orbán ha mostrato di reggersi su narrazioni atte ad alimentare una serie di paure presso la popolazione ungherese. La paura di chi è diverso per provenienza, religione, orientamento sessuale, propensioni politiche, etnia. “Abbiamo già il nostro da fare con i Rom” aveva detto nel 2015 e dintorni spiegando che non era il caso di creare altre occasioni di impossibile convivenza interculturale e provocare in questo modo tensioni destinate alla deflagrazione sociale.
Orbán, quindi, non ha mai gradito l’esortazione del papa ad accogliere i migranti, gente che, fa notare Francesco, proviene da contesti di estrema sofferenza e che chiede aiuto disperatamente. Analoga la reazione di alti rappresentanti della Chiesa ungherese – tendenzialmente nazionalista – a questo invito. Francesco e il premier danubiano hanno quindi materia di discussione, in questo senso, e sul significato dell’identità cristiana che dal governo ungherese e dai suoi sostenitori è vista evidentemente come un qualcosa da contrapporre a identità altre e non come mezzo di apertura e di dialogo.
“Ognuno a casa sua”, si diceva. In questo Orbán ha sostenitori non solo in Ungheria e non esclusivamente a puro livello di opinione pubblica. Ci sono politici occidentali che la pensano in questo modo e anche una presidente del Consiglio come la Meloni secondo la quale il diritto di emigrare è preceduto da quello di stare a casa propria. Va detto che i diritti non si escludono a vicenda, non si contrappongono l’un l’altro, ma caso mai si completano. Poi sembra che per la Meloni il secondo sia piuttosto un dovere, senza contare che la storia dell’umanità è fatta anche di spostamenti di popoli soprattutto in particolari momenti caratterizzati da crisi e cambiamenti epocali. Si emigra per diversi motivi ed emigrano da tempo anche numerosi ungheresi.
Il fenomeno migratorio va certo gestito in modo razionale e con un impegno corale che veda una collaborazione fattiva all’interno dell’Ue; se poi ci mettiamo anche un po’ di umanità, perché no?, potremo magari continuare a guardarci allo specchio. Per alcuni la cosa è ancora importante.
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