Sulla strada. Sulla strada per sei giorni in fuga dalle bombe di Kiev verso la speranza, per ricominciare, per poi tornare a casa, chissà, un giorno, forse lontano, in un futuro difficile da immaginare.
Yulia ha 32 anni. Vuole raccontare sì, ma ha paura di piangere, ci dice, cercherà di trattenere le lacrime. Minuta, sorride, un fare solare, quello di chi deve trovare la sua forza, di chi ancora riesce a tenersi a un groviglio di nervi che ti fa andare avanti, a portarti in salvo, oltre l’istinto di sopravvivenza, alla ricerca di una speranza tutta da costruire e per costruirla devi crederci.

È in viaggio dal 24 febbraio con sua figlia Lisa di 12 anni e una collega, Vitalia, che di anni ne ha 20. Hanno lasciato Irpin, a nord-ovest di Kiev, nelle vicinanze dell’aeroporto di Hostomel. «Irpin dove tutto è cominciato», dice. Perché le bombe, quella mattina, sono arrivate prima lì, non a Kiev. «Perché i russi hanno preso l’aeroporto, che è proprio lì».
In Polonia sono arrivate in macchina, dopo aver passato il confine con la Moldova, a Chernivtsky, la «Piccola Vienna» dell’Ucraina occidentale, una volta città cosmopolita, la Gerusalemme sul fiume Prut.

Dalla Moldova verso la Romania, per poi entrare in Ungheria e in Slovacchia e spegnere il motore in Polonia. «E’ il modo più sicuro se hai una macchina, più sicuro per arrivare da qualche parte, perché è una tratta insolita, che fanno in pochi. Tutti scappano in treno o in autobus». E dopo? «Il viaggio continua, verso l’Estonia». Lì Yulia e Vitalia continueranno a lavorare presso una filiale della Yolo, l’azienda di cui sono dipendenti. Il futuro? Il futuro si vedrà, quella è un’altra storia, ancora tutta da immaginare.

Alle spalle ci sono le bombe d’inizio di un inferno che non accenna a spegnersi. Il viaggio inizia da lì, da Chernivtsky, dalla Piccola Vienna, da un angolo di Europa verso l’Europa dei popoli, quella che si sta stringendo attorno a chi è diventato bersaglio di morte, quei popoli che si ritrovano alla stazione di Przemysl, città a 14 chilometri da Medyka, varco di confine tra Polonia e Ucraina, per «portarsi i profughi a casa», due, tre, otto per volta. Li vengono a prendere qui, donne, neonati, bambini, adolescenti, cani e gatti compresi, gli uomini no, quelli restano in Ucraina per combattere, per resistere, per «difendere le origini».

L’Europa dei popoli che viene a prendere chi è scampato dalle schegge di fuoco e dalle pallottole ha i volti di Marcin Osikowicz, che fa la spola da Cracovia a Kiev, per portare medicinali e cibo e prendere loro, chi nel giro di pochi giorni è diventato un rifugiato, un profugo, uno sfollato; di Maxime, 27 anni, di Pau, nel sud della Francia, o di Yarek Rudnicza, 42 anni, o di Borg, 35 anni, di Cracovia, e di altri che non vogliono dire come si chiamano, che vengono da Amburgo, da Berlino, tutti con un cartello tra le mani, ben in vista , scritto in cirillico ucraino: «Prendiamo profughi a casa». «La mia casa è grande, c’è posto per tre persone. Quando tutto sarà finito se finirà, li riaccompagnerò a casa, se vorranno», ci dice Maxime. Vivi solo? «No, con mia moglie e mia figlia». Li incontriamo, nella hall della stazione di Przemysl e al binario cinque dove arrivano e partono i treni per Leopoli.

Il flusso alla frontiera polacca con l’Ucraina è in rapido aumento. Secondo i dati della guardia di frontiera polacca, soltanto nella giornata di domenica sono entrati in Polonia circa 142 mila persone provenienti dall’Ucraina, numero record raggiunto in un solo giorno sin dall’inizio della guerra. Alle 7 di lunedì mattina erano già stati registrati ulteriori 42 mila arrivi.

Dal 24 febbraio ad oggi sono entrate complessivamente in Polonia circa un milione e sessantasette mila persone in fuga dalla guerra.
Da Medyka ogni giorno partono gli autobus carichi di persone verso Przemysl, dove ad attenderli ci sono volontari, amici o parenti (la comunità ucraina della Polonia conta circa 1,5 milioni di persone), verso altre città polacche pronte ad accoglierli: Katowice, Kielce, Cracovia, Danzica. Alcuni decidono di andare invece in Slovacchia, Ungheria e Romania.