Internazionale

Trasmissioni interrotte, Israele fa calare il silenzio sul nord di Gaza

Giornalisti al Nasser Hospital di Khan Younis con la foto del collega ucciso Hassan Hamad Getty/Doaa AlbazGiornalisti al Nasser Hospital di Khan Younis con la foto del collega ucciso Hassan Hamad – Getty/Doaa Albaz

Palestina In tredici mesi uccisi 182 giornalisti. Chi resta viene minacciato o non ha più mezzi per fare informazione. Shuruq Asad: «Da ottobre 2023 sono stati arrestati 128 reporter. Quelli che sono usciti sono traumatizzati: sono stati torturati, aggrediti sessualmente, affamati»

Pubblicato circa 12 ore faEdizione del 31 ottobre 2024

L’assedio militare israeliano che da un mese soffoca il nord di Gaza avanza in un silenzio irreale. I continui blackout delle reti di comunicazione rallentano il flusso di informazioni e immagini. Giungono notizie di massacri a Jabaliya, Beit Hanoun, Beit Lahiya e di fughe massicce di popolazione palestinese verso sud, ma spesso le immagini disponibili sono solo quelle fornite dagli account ufficiali dell’esercito israeliano.

I SOCCORRITORI non riescono a raggiungere i palazzi bombardati – perché non ci sono i mezzi o perché le poche ambulanze disponibili sono target – e i giornalisti non riescono a raccontare le stragi. Shuruq Asad, la giornalista di Gerusalemme che fa da portavoce al sindacato dei reporter palestinesi, legge in quel silenzio una pratica intenzionale, la stessa che impedisce da tredici mesi alla stampa internazionale di mettere piede a Gaza, se non sotto scorta dell’esercito israeliano: «Non ci sono notizie dal nord di Gaza perché i giornalisti sono terrorizzati».

Le ragioni di quel terrore sono i 182 giornalisti palestinesi uccisi dal 7 ottobre 2023, la maggior parte presi di mira intenzionalmente dalle truppe israeliane. Ad alcuni hanno bombardato la casa, ad altri ammazzato la famiglia. Gli ultimi sono stati uccisi domenica 27 ottobre, cinque in un giorno solo: due donne, Nadia al-Sayed e Haneed Baroud, e tre uomini, Abdul Rahman Al-Tanani, Hamza Abu Salmiya e Saed Radwan. Alcuni lavoravano in radio, altri per al-Aqsa Tv, Sanad News Agency e la Al-Quds Foundation.

«Il sindacato – ci spiega Asad – conta circa 1.600 giornalisti a Gaza. Israele ha ucciso il 10% di loro. Di questi, 300 sono a nord, tra reporter, cameraman, fixer. È difficile tenere un bilancio. La situazione è pericolosissima anche con indosso la pettorina. Hanno fame come gli altri palestinesi del nord. Sono stanchi dopo un anno come questo. Spesso non hanno accesso alla rete internet e all’elettricità. Solo alcuni di loro lavorano per grandi outlet come al Jazeera che riescono a fornire mezzi migliori».

I mezzi migliori raggiungono un pubblico più ampio ma si portano dietro l’altro lato della medaglia, attirano l’attenzione del governo israeliano. Al Jazeera ha perso giornalisti, ne ha visti feriti altri, è stata messa al bando in Israele e affronta una minaccia strutturale: l’etichetta di terrorista. Una settimana fa le autorità di Tel Aviv hanno pubblicato un puzzle con sei volti e sei nomi: Anas al-Sharif, Talal Aruki, Alaa Salama, Hossam Shabat, Ismail Farid e Ashraf Saraj. Sono membri di Hamas, dice Israele; sono giornalisti, risponde l’emittente qatarina.

QUEL POSTER che fa tanto «wanted dead or alive» spaventa, è come mettergli in fronte un mirino. Istituzioni e organizzazioni internazionali, come il Committee to Protect Journalists (Cpj), hanno condannato la mossa israeliana insistendo sull’evidenza: Israele «ha ripetutamente mosso simili accuse senza produrre prove credibili».

Quasi ironico che l’accusa ai sei sia stata avanzata mentre su Canale 12, la tv pubblica israeliana, il più noto dei suoi presentatori, Danny Kushmaro, si faceva riprendere mentre partecipava allo «sforzo bellico» facendo saltare in aria un palazzo nel sud del Libano. Non è un caso nemmeno che quei sei giornalisti di al Jazeera fossero tutti di stanza nel nord di Gaza. Il silenzio, appunto.

Il Cpj – che ieri in un rapporto ha accusato «Israele di non indagare o punire chi uccide giornalisti quando di fatto è responsabile del numero record di reporter uccisi» nel mondo – ha ricordato il caso di Ismail al-Ghoul, decapitato e ucciso dall’attacco di un drone israeliano lo scorso luglio, con la pettorina addosso, visibilissimo all’esercito. Quel caso lo ricorda bene anche Asad: «Lo conoscevano tutti, lo vedevano in tv che raccontava la quotidianità degli ospedali di Gaza. Israele ha detto che nel 2007 aveva ricevuto formazione militare da Hamas. Ismail era nato nel 1997. Nel 2007 aveva dieci anni».

«Ismail aveva coperto l’assedio all’ospedale Shifa, pochi mesi prima di essere ucciso – continua Asad – Lì è stato arrestato con il suo cameraman. È rimasto prigioniero due settimane. Se avessero avuto prove, lo avrebbero tenuto dentro. Il punto è terrorizzare gli altri, tanti decidono di non lavorare più. Succede anche in Cisgiordania, ci sono gruppi di coloni, soldati, estrema destra che intimidiscono i giornalisti. È nato un sistema che si traduce in incitamento istituzionalizzato alla violenza». Quel sistema passa anche per la prigione: negli ultimi tredici mesi, secondo i dati del Sindacato, sono stati arrestati 128 reporter palestinesi, di cui una trentina a Gaza e il resto in Cisgiordania.

«NEMMENO la Croce rossa può fargli visita, molti non sappiamo dove si trovino – dice Shuruq Asad – Di questi 128, sette sono donne e 61 sono stati posti in detenzione amministrativa (senza accuse ufficiali né processo, ndr). La maggior parte è stata arrestata per violazione della libertà di parola e incitamento al terrorismo, per quanto scritto negli articoli o sui social. Al momento in cella ne restano 58. Quelli che sono usciti sono traumatizzati, terrorizzati all’idea di tornare dentro: sono stati torturati, aggrediti sessualmente, affamati. Hanno perso 20 o 30 chili».

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