Trame immaginarie e riforme inutili
Spioni e dossier Il caso aperto a Milano, tra indagini roboanti e conclusioni molto più modeste, dimostra tra le altre cose anche il non senso della separazione delle carriere dei magistrati
Spioni e dossier Il caso aperto a Milano, tra indagini roboanti e conclusioni molto più modeste, dimostra tra le altre cose anche il non senso della separazione delle carriere dei magistrati
L’inchiesta di Milano sulla banda dei dossier è cominciata con quasi 4.000 pagine di informativa dei carabinieri, è proseguita con quasi 1.200 pagine di richieste della procura antimafia e, per ora, si è fermata con poco più di 500 pagine di ordinanza del gip.
Il climax discendente degli atti, però, sembra rovesciarsi in sede di notiziabilità della storia: dal giro di segreti e segretucci che quattro investigatori privati vendevano a ricchi e potenti si è passati in poche ore all’evocazione di «trame eversive» e infine al disegno di un girone infernale fatto di agenti del Mossad, spiate ai danni delle più alte cariche dello Stato e oscure presenze vaticane. Un po’ troppo anche per gli stomaci più allenati alla cronaca giudiziaria italiana, capace di trovare un complotto in qualsiasi cosa.
Ecco, al di là delle suggestioni contenute nei brogliacci dei carabinieri (tutti i brogliacci contengono quantità enormi di suggestioni) e dalle chiacchiere senza riscontri raccolte con le intercettazioni (tutte le intercettazioni contengono tante chiacchiere prive di riscontri), la storia da tenere in maggiore considerazione è quella raccontata dal gip di Milano Fabrizio Filice, che ha preso l’indagine della Dda di Milano e della Dna, l’ha depurata dai fatti indimostrabili e dalle tesi sprovviste di indizi a supporto e su tredici provvedimenti cautelari richiesti ha concesso appena quattro arresti domiciliari e due misure minori: quella che viene fuori è una vicenda di spionaggio industriale, pratica antica quanto il capitalismo e, a ricordarsi un po’ di storia nazionale, molto di moda soprattutto a Milano. Fatti gravi, certo, ma il pericolo per la tenuta democratica del paese proprio non si vede.
Se poi volessimo fare un pensiero inquietante potremmo limitarci a fare constatazioni molto semplici, quasi banali. I sistemi informatici pubblici, i database investigativi e le banche dati piene di informazioni coperte dalla privacy, per ammissione ormai pressoché unanime degli interessati e dei responsabili, sono esposti ad ogni tipo di rischio. Non tanto per una loro presunta debolezza strutturale, però, quanto per la gran massa di persone che può accedervi (quasi) senza controllo. E questi dossier di cui tanto si parla sono composti da documenti estratti proprio da queste fonti. A tirarli fuori non sono però stati esperti hacker o potenze straniere, ma agenti infedeli delle forze dell’ordine italiane. Nell’inchiesta di Milano ne sono stati scoperti due in servizio, oltre a qualche ex dal curriculum altisonante, che andrebbero aggiunti al finanziere Pasquale Striano indagato a Perugia per l’altro caso di dossieraggi (che peraltro non riguarda manager e capitani d’impresa, ma, più pesantemente, la Direzione nazionale antimafia e chi l’ha guidata fino a non troppo tempo fa).
La distanza enorme che c’è tra le richieste della procura milanese e l’ordinanza del gip, infine, ci aiuta a fare chiarezza su uno dei più sbandierati vessilli ideologici del governo Meloni: la cosiddetta separazione delle carriere tra magistratura requirente e magistratura giudicante. Può infatti accadere, come vediamo, che due uffici dello stesso tribunale non siano d’accordo, cioè che i pm chiedano qualcosa che poi il giudice non concede. Al di là delle opinioni sul fatto in sé, si tratta di un segnale di buona salute della nostra giurisdizione. E significa pure che separare le carriere non ha alcuna utilità nel percorso, a volte tortuoso, che bisogna percorrere quando si tratta di fare giustizia.
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