Trafic, una nuova galassia cinematografica
Riviste Torna in Francia, nella veste di un almanacco annuale, la testata che aveva chiuso i battenti, edita da P.O.L.
Riviste Torna in Francia, nella veste di un almanacco annuale, la testata che aveva chiuso i battenti, edita da P.O.L.
Con la pubblicazione del numero 120 nel dicembre 2021, l’annuncio della chiusura della rivista francese Trafic fondata da Serge Daney aveva scosso i molti cinefili che in ogni parte del mondo trovavano in quell’esperienza trentennale un punto di riferimento la cui sopravvivenza era in qualche modo rassicurante – anche per chi magari ne era un lettore solo occasionale. Non si chiudeva soltanto la parabola di una pubblicazione ma un certo modo di pensare il cinema, insomma, un’epoca intera. Quella notizia va intanto rettificata: Trafic trimestrale in effetti non esisterà più ma si è trasformata in qualcos’altro, un almanacco annuale il cui primo numero (Trafic – Almanach de cinéma 2023) è stato appena pubblicato in Francia dallo storico editore P.O.L.
Un nuovo gruppo di lavoro (composto ora da Raymond Bellour con Bernard Benoliel, Christa Blümlinger, Jean-Paul Fargier e Judith Revault d’Allonnes), è lo sguardo sul cinema, dicono i redattori nell’editoriale d’apertura, a necessitare di maggiore tempo e maggiore distanza. Per viaggiare più in profondità in una nuova galassia del cinema occorre allora trasformare la rivista in una navicella spaziale, costruire una sonda astronomica in grado di decodificare i buchi neri trasformandoli in immagini per accedere allo spettacolo del cielo. Di fronte al proliferare delle possibilità di visione su piattaforme, festival, sale cinematografiche, la decisione è quella di ragionare con lentezza, estendere i tempi, attraversare l’anno e gli anni, cambiare focale senza rincorrere il presente e riconsiderare il cinema alla luce di una più intensa inattualità.
Così in questo primo almanacco diviso in sezioni dai titoli spaziali – costellazioni, meteore, cosmologie, pianeti, galassie, raggi e meteoriti – troviamo riflessioni sulla guerra in Ucraina (di Dork Zabunyan) e sulla pandemia di Covid-19 (di Amadis Chamay, tra Val Lewton e Daniel Defoe), ma anche quattro straordinari testi inediti di Serge Daney (a cura di Pierre Eugène) e uno di Jacques Rancière, o riflessioni di registi come Ryûsuke Hamaguchi su Eric Rohmer, consigli agli spettatori cinematografici di Amos Vogel, e ancora considerazioni di Mark Rappaport sul futuro della scrittura sul cinema, note di lavoro di Yervant Gianikian e un ricordo di Godard da parte di Alexander Kluge. Ma soprattutto, tra le righe delle 453 pagine che compongono questo almanacco, una filmografia variegata e una bibliografia di cui difficilmente, in Italia, si ha contezza.
Cosa vediamo quando guardiamo il cielo? Il titolo del film di Alexandre Koberidze (2021) traduce bene il senso dell’interrogativo che attraversa i tanti contributi, più di sessanta, che provano a dare corpo attraverso le parole alle molteplici stratificazioni che compongono le immagini del cinema agli occhi del contemporaneo.
Per fare solo alcuni esempi, se l’indagine di Nicole Brenez si rivolge verso la dimensione dichiaratamente politica dei lavori della regista slovena Nika Autor e del suo collettivo Newsreel Front (Obzorniška fronta), aprendo prospettive sugli intrecci più recenti tra cinema sperimentale, installazione e analisi materialistica del biopotere, Mathieu Macheret riparte dall’ultimo festival di Cannes e Jean-Michel Frodon fa un’analisi del ruolo e una storia del lavoro dei festival di cinema, offrendo un articolato materiale di riflessione per questioni fondamentali che riguardano la posta in gioco di manifestazioni così diverse in tutto il mondo e il futuro della fruizione cinematografica, nel suo nodo tra strategie di distribuzione e funzione di supporto degli autori (per un complemento alla riflessione di Frodon si veda il numero 22 di Cinergie. Il cinema e le altre arti, appena pubblicato e disponibile gratuitamente sul sito della rivista italiana, con un focus incentrato sui festival studies).
Nelle pagine dedicate al progetto di una cineteca ideale delle periferie del mondo – banca dati e lavoro di ricognizione che nel 2023 si occuperà di ragionare su cliché e rappresentazioni a partire dalle molteplici configurazioni che il concetto stesso di periferia può assumere attraverso i film – Romain Lefebvre attraversa una filmografia sconosciuta ai più, mentre Erik Bullot riparte dalla biblioteca di Sergej Ejzenstejn per dire che è anche tra gli scaffali e tra i libri dei registi – e più in generale: tra le parole – che si scrive la storia del cinema.
E se sono Radu Jude, Ryûsuke Hamaguchi, Mariano Llinás, Michelangelo Frammartino, Joana Hogg, Leos Carax e Tsai-Ming Liang i registi contemporanei verso cui si richiama maggiormente l’attenzione dei lettori, l’approccio cosmopolita che caratterizza l’intero volume ci riporta virtualmente in Francia in occasione del mini-dossier dedicato alla regista ucraina Kira Muratova, oggetto nei mesi scorsi di una retrospettiva sulla piattaforma Henri della Cinémathèque française.
Non mancano infine suggestioni più filosofiche che si concentrano su un film – è il caso di Catherine Malabou su Hiroshima mon amour – o che si muovono tra le epoche in modo libero, come fanno Peter Szendy nella sua riflessione sul rumore come medium anarchico nel cinema e Friedrich Kittler che racconta una breve storia del proiettore (e della guerra). Oppure documentariamente poetiche, com’è il caso della lettera immaginaria di François Truffaut redatta da Jean-Paul Fargier che ripercorre la pubblicazione recente di tre raccolte di scritti e interventi del regista a cura di Bernard Bastide.
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