Cultura

Tra vita e Storia, la memoria sognante di Ariel Dorfman

Tra vita e Storia, la memoria sognante di Ariel DorfmanAriel Dorfman – Getty Images

L'intervista Parla l’autore di «Indagine su un colpo di Stato» (Guanda). «Il romanzo ha preso forma quando mi sono chiesto se avrei osato fare del narratore qualcuno come me. Perché tornare sulla morte di Allende? È un enigma che ha tormentato e diviso il Cile dal 1973. Per me si trattava anche di pagare un debito. Lavoravo con lui, ma non ero alla Moneda il giorno del golpe. Quando morì Pinochet scrissi che la sua ombra poteva continuare ad avvelenare la società. Spero che il mio romanzo offra esempi di coraggio da opporre a questa amnesia collettiva»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 ottobre 2023

Una sorta di memoir che ha i contorni di un thriller, dove la Storia, quella di un intero popolo o se si vuole di una fetta dell’umanità, si confonde con le vicende personali del protagonista e del narratore, entrambi scossi da quesiti che ne continuano ad accompagnare le esistenze a tanti anni dai fatti. Se questo è lo sfondo dell’ultimo romanzo di Ariel Dorfman, Indagine su un colpo di Stato (Guanda, pp. 588, euro 24), la trama mette in scena la ricerca della verità sulla morte del Presidente socialista cileno Salvador Allende, l’11 settembre del 1973 nel palazzo della Moneda a Santiago, durante il colpo di Stato militare guidato dal generale Pinochet. A dieci anni dai fatti, Joseph Hortha, un miliardario olandese sopravvissuto alla Shoah che ha fatto fortuna con l’industria della plastica per poi pentirsene, incarica Ariel, che in quei giorni tragici era accanto ad Allende, ma non durante il golpe, di indagare sulla fine del presidente. Forse per liberarne la memoria e rendere ancor più vivo quell’esempio di libertà e democrazia soffocato nella violenza. Argentino di nascita, tra i collaboratori di Allende, nel 1973 non aveva trent’anni, Ariel Dorfman sarebbe sopravvissuto alla dittatura fuggendo all’estero, prima in Europa e quindi negli Stati Uniti, dove, dal 1985 insegna Letteratura latinoamericana alla Duke University. Autore di più di 40 opere tra saggi, romanzi e opere teatrali, tra cui La morte e la fanciulla (Garzanti, 1993), portata sullo schermo da Roman Polanski, Dorfman è considerato uno dei grandi narratori dell’America Latina.

A prima vista si potrebbe credere che il suo romanzo sia un thriller su cosa è accaduto l’11 settembre 1973 nel palazzo della Moneda. Come è nato?
Per anni ho giocato con la questione se Allende si fosse suicidato o fosse stato assassinato l’11 settembre. Questo, insieme a molti altri temi che si insinuano nel romanzo: i bambini ebrei che furono nascosti durante l’occupazione nazista dell’Olanda, come risvegliare l’umanità rispetto al pericolo della nostra estinzione, i problemi della transizione dalla dittatura alla democrazia. Ma non sono riuscito a capire chi potesse raccontare la storia. Questo romanzo ha cominciato a prendere forma quando mi sono chiesto se avrei osato fare del narratore qualcuno che fosse proprio come me, che porta il mio nome e ha i miei stessi amici, la mia famiglia e usa la mia vita reale per indagare sulla morte di Allende. Era una strategia rischiosa perché quella mia vita è già avvenuta ed è perciò prevedibile, ma la stavo usando per sviluppare un romanzo inevitabilmente imprevedibile (parola con cui il grande romanziere colombiano Juan Gabriel Vásquez definisce ciò che è essenziale in questo lavoro). Ma quel rischio mi ha permesso di fondere ciò che è storico con ciò che è immaginario: il lettore è sfidato a chiedersi quali sono i limiti della realtà, come possiamo rimanere morali e netti se è in gioco il passato, che cambia costantemente con ogni persona che ricorda, ogni persona che interpreta quel passato in modo diverso. Questa strategia letteraria consente a un libro che tratta molti argomenti seri (colpi di Stato, esilio, apocalisse climatica) di essere un’esperienza giocosa, un viaggio che spero i lettori possano apprezzare.

Uno degli interrogativi di fondo è se Allende sia stato ucciso o se si sia suicidato. Perché questo quesito ha così tanta importanza?
È un enigma che ha tormentato e diviso il Cile dopo il colpo di Stato. Quale messaggio ci consegna la morte di Allende, qui nel futuro, come continua la lotta per la giustizia dopo la sua morte? Come essere fedele alla complessità della sua esistenza e della sua ultima resistenza? Per me si trattava anche di pagare un debito. All’epoca, avevo lavorato negli ultimi mesi alla Moneda e fui salvato dalla morte per una serie di circostanze fortuite e, in seguito, mi ha consumato il senso di colpa per non essere stato al fianco del presidente. Il romanzo era un modo per tornare, ossessivamente, a quel momento che non avevo visto con i miei occhi e accedere a quegli eventi attraverso la mia immaginazione. Si potrebbe azzardare che fosse terapeutico e volevo che aiutasse anche il mio Paese a guarire.

Attraverso la figura di Hortha, al possibile suicidio di Allende, nel romanzo si intrecciano le preoccupazioni per quella sorta di suicidio che l’umanità sta commettendo infischiandosene del clima. Come si legano questi temi?
Proprio come il personaggio di «Ariel» ha un motivo per scoprire la verità sulla morte di Allende, così Hortha, che sostiene che Allende lo abbia salvato due volte dal suicidio, ha bisogno di sapere come presentare il suo eroe in un museo delirante che vuole costruire per risvegliare la nostra specie dalla propria corsa autodistruttiva verso l’abisso. Gli itinerari di questi due uomini che cercano di scoprire cosa accadde l’11 settembre ’73 si intrecciano finché, alla fine, il destino del Cile e quello del pianeta, e ciò che ciascuno di costoro ha scoperto su se stesso, si uniscono in una sorprendente rivelazione.

In esergo al libro compare una citazione di Novalis: «I romanzi nascono dalle manchevolezze della storia». In questo caso, qual è stato il contributo della narrativa?
Ho scritto diverse memorie sulla mia vita, molti commenti, saggi, persino un diario di viaggio, ma tutto questo è stato limitato dalle esigenze della Storia: ciò che ho detto è realmente accaduto. Il romanzo è invece un genere che mi permette di usare l’invenzione per andare oltre l’evidenza – per esempio, per presentare due testimoni oculari che dicono cose opposte sulla morte di Allende o per frapporre diverse altre narrazioni che creano (secondo Sergio Ramírez, l’eminente autore nicaraguense) una sorta di qualità alla Cervantes per il libro. Ci sono omicidi in un’ambasciata e un fotografo di matrimoni che può dire se una coppia resterà insieme o si separerà, e variazioni sui tre porcellini della Disney. Volevo ampliare i confini di ciò che i romanzi possono fare e soprattutto sovvertire la categoria di «autofiction».

Il suo alter ego narrativo, Ariel, ritiene sia venuto il momento di lasciare per sempre il Cile: questa storia rappresenta la fine letteraria del suo lungo esilio?
Un’osservazione molto attenta. Anche se in futuro il Cile apparirà nei miei racconti e, inevitabilmente, oscura e illumina tutto ciò che scrivo – il colpo di Stato, la dittatura, la resistenza, la transizione sono tutte esperienze per me determinanti -, i prossimi libri approfondiranno altri argomenti.

Sono passati molti anni da «La morte e la fanciulla». Qual è il contributo della letteratura, come del teatro, alla ricerca della giustizia, della verità, della memoria?
Sono riluttante a dire cosa dovrebbero essere la letteratura o il teatro, perché l’arte ha molte funzioni e preferisco non essere prescrittivo. In virtù delle carte che la vita e la Storia mi offrono, la mia ricerca letteraria gravita verso le storie di coloro che sono esclusi dalle narrazioni e dai paradigmi ufficiali, quindi si potrebbe dire che fanno parte della lotta per la giustizia, la verità e la memoria. Ma come scrittore che ama l’ambiguità e pensa che sia un’arma importante nella lotta contro la semplificazione che pervade gran parte di ciò che leggiamo e guardiamo oggi, voglio esplorare quanto possa essere sfuggente la memoria, quanto sia difficile e sfaccettata la verità, come la giustizia è spesso cieca. La mia immaginazione non è solo compassionevole. È anche, spero, critica. La morte e la fanciulla, ad esempio, è stato di enorme conforto per numerose donne vittime di abusi in tutto il mondo, ma allo stesso tempo è un’esplorazione molto inquietante della perversione e di quanto sia difficile trovare giustizia o verità in un mondo in cui le vittime hanno così poco potere. Il mio nuovo romanzo non mente rispetto a quanto siano frammentati il Cile e il mondo, perché non è sufficiente denunciare la repressione dei nostri nemici se non riconosciamo la nostra oscurità interiore.

Il romanzo è uscito a 50 anni dalla morte di Allende, mentre in America Latina, dopo il governo di Bolsonaro in Brasile, si rischia che in Argentina arrivi al potere l’estrema destra e in Cile cresca la «nostalgia» per Pinochet. Come spiegarsi un simile fenomeno?
Quando Pinochet morì nel dicembre del 2006, scrissi sul New York Times che coloro che celebravano la sua scomparsa dovevano stare attenti perché la sua ombra avrebbe potuto continuare ad avvelenare la società cilena anche in futuro. Ed è quello che sta accadendo. Come potrebbe avvenire anche in Argentina o in altri Paesi della regione. Viviamo un momento segnato dalle tentazioni autoritarie in tutto il mondo. Un momento in cui è davvero utile, ancora più di prima, che si ricordi l’esempio di Allende a La Moneda, che difendeva non solo la democrazia, ma anche la decenza, la dignità, l’onore. Un esempio che, proprio in un tale momento, si indirizza a noi per sognare un mondo migliore. Ora, il vero nemico è la paura. Le persone che hanno paura permetteranno che venga fatta qualsiasi cosa in loro nome per sentirsi sicure. Spero che il mio romanzo fornisca molti esempi del tipo di coraggio ostinato di cui abbiamo bisogno se vogliamo sopravvivere a questa possibilità di amnesia collettiva.

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