Tra spazi reali e altri ideali, la Barcellona di Marina Garcès: un saggio-memoir
Tra narrazione e filosofia «Occupare la speranza», da Castelvecchi
Tra narrazione e filosofia «Occupare la speranza», da Castelvecchi
L’insieme dissonante delle nostre storie: è una delle definizioni, non a caso più narrativa che altro, data da Marina Garcès della parola «città», nel suo ultimo libro.
Nel dibattito attuale sulla crisi degli «spazi comuni», che viene abbordato da prospettive diverse e complementari – quella politica in senso stretto e ovviamente a quella economica si intrecciano alla sociologia e alla architettura – il ruolo della città ha paradossalmente guadagnato nuova centralità, alla luce delle drammatiche trasformazioni cui questa entità amministrativa, sociale e soprattutto simbolica è sottoposta da un decennio in Occidente, da cui sembrano scaturire devastazioni simili a quelli del colonialismo europeo della prima ora.
E proprio sull’immagine di questo luogo dolente e innanzitutto mentale la filosofa catalana ha costruito un libro insolito e per forza di cose ibrido, che riattraversando diversi momenti storici della sua Barcellona, vi intesse dentro la biografia personale dell’autrice e soprattutto quella politica della sua generazione, in equilibrio tra saggio, memoir collettivo, e pamphlet.
Occupare la speranza (traduzione dal catalano di Stefano Puddu Crespellani, Castelvecchi, pp. 288, € 25,00) ha un titolo originale, Ciutat Princesa, che si rifà al nome di un cinema occupato nel capoluogo catalano negli anni novanta: è qui che Garcès fa cominciare la sua «educazione» all’antagonismo politico, che passa da pratiche urbane come quella, per esempio, dell’occupazione di spazi inerti per restituirli a nuova vita civica. «Metterci il corpo», si intitola la prima parte del libro: da lì, dalla presenza fisica, partono le esperienze di condivisione e apertura di una città, ci dice Garcès (in controtempo rispetto alle attuali tendenze). Riviste, centri sociali, iniziative culturali, vengono allora raccontati come movimenti organici, letteralmente, e accostati alle evoluzioni del corpo individuale, che si fa intanto adulto, genera figli, si ammala.
La voce narrante vuole parlare soprattutto di Barcellona negli anni in cui l’ha vissuta da dentro: le Olimpiadi, precedute da quelle che Manuel Vázquez Montalbán chiamò «le bombe intelligenti» dell’urbanistica, usate per sventrare e «riqualificare» interi quartieri della città (in realtà svuotandoli dei vecchi abitanti, per assecondare l’anonimo «consumismo urbano» che in anni successivi avrebbe mostrato il suo volto peggiore).
Via via che scorrono gli eventi storici – la grande manifestazione contro la guerra del 2003, le proteste del 15-M, fino al referendum sull’autodeterminazione catalana e l’elezione di Ada Colau a sindaca –, il «saggio di pensiero», come lo chiama Garcès, prende il sopravvento, e si confronta non senza amarezza con questioni politiche interne al movimento, o a quello cui spesso lei si rivolge come «antagonismo», rimaste irrisolte. Eppure Occupare la speranza mantiene un’aspra vitalità fino agli ultimi capitoli, nei quali l’autrice dei Textos de filosofia de guerrilla invoca il ritorno all’idea della città come spazio innanzitutto di creazione di immaginari: senza presente ideale, non c’è un vero presente reale, da cui far scaturire quelli che Garcès evoca come «ricordi di futuro».
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento