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Tra gli schiavi moderni della società libanese

Tra gli schiavi moderni della società libaneseLavoratrici migranti in una chiesa di Beirut – Afp/Fadel Itani

Libano Il sistema Kafala: lavoratori a costo (quasi) zero per le famiglie dei Paesi del Golfo e il Libano

Pubblicato 17 minuti faEdizione del 16 ottobre 2024
Sabato AngieriDI RITORNO DA BEIRUT

Al centro di Beirut, a poca distanza da Piazza dei Martiri e dal lungomare, una vecchia chiesa gesuita che si occupava di fornire assistenza ai lavoratori sfruttati del «sistema Kafala» ora è diventata il rifugio di decine di perone a cui la guerra ha tolto tutto.

«IL SISTEMA KAFALA» ci spiega John, project manager del Servizio gesuita per i rifugiati (in inglese Jrc) presso il centro migranti Arrupe, «consiste in una serie di accordi bilaterali tra il Libano e diversi Paesi, in particolare Filippine, Etiopia, Somalia, Sudan, secondo i quali un lavoratore viene chiamato direttamente dalle agenzie interinali e portato qui. La maggior parte di questi lavoratori viene attirata con false promesse di guadagno e di prospettive lavorative e poi finisce a lavorare come domestico, badante, inserviente presso le famiglie benestanti libanesi sia cristiane sia mussulmane. A molti di questi individui viene ritirato il passaporto quando atterrano, il che li pone in uno stato di totale dipendenza dal datore di lavoro, che spesso usa i documenti come ricatto. Nelle case dove questi migranti vengono dislocati spesso si creano situazioni di vera e propria schiavitù. C’è il caso emblematico di alcune donne filippine che dovevano cucinare per la famiglia che le aveva chiamate, ma poi non erano ammesse a mangiare in casa. Non dico alla stessa tavola, ma neanche sotto lo stesso tetto. Quindi dopo aver cucinato per tutti, erano costrette ad aspettare che la famiglia finisse per poi pulire e avere la possibilità di tornare a casa propria a mangiare. Ci sono ovviamente dei casi fortunati di lavoratori migranti trattati con dignità, ma negli anni noi abbiamo registrato molti casi di abusi, stupri, addirittura omicidi». John ci spiega che durante la crisi molti di questi lavoratori sfruttati sono stati cacciati dalle case dove lavoravano e si sono ritrovati in strada, spesso senza documenti. «Allo stesso modo dopo la fine di settembre, con l’inasprirsi dei bombardamenti israeliani, le famiglie che sono scappate hanno deciso semplicemente di ‘disfarsi’ dei lavoranti, senza preoccuparsi di dove questi sarebbero andati a stare e, soprattutto, in che condizioni».

IL SISTEMA della kafala non esiste solo in Libano, ma anche in Qatar, Kuwait, Oman, Bahrein, Arabia saudita e negli Emirati arabi, tutti paesi del Golfo. «I lavoratori provengono da stati più poveri di quelli ospitanti e vengono chiamati tramite agenzie che si occupano specificatamente di questo. Spesso i lavoratori vengono ingannati, gli si promettono lavori di ogni genere o addirittura destinazioni europee e invece finiscono in Medioriente. Sono venuto a conoscenza personalmente di molti casi in cui all’atterraggio i lavoratori presentavano il passaporto convinti che fosse il controllo doganale e invece si trattava dei dipendenti delle agenzie che lo ritiravano e lo consegnavano alle famiglie». In altri termini, si tratta di un sistema di schiavitù legalizzato. «Alcuni Paesi hanno addirittura vietato il Libano come destinazione, ma le agenzie aggirano il divieto facendo scalo in un Paese terzo».

JOHN CI ACCOMPAGNA all’interno della chiesa Ottocentesca che i gesuiti avevano costruito facendola passare come scuola, per aggirare il divieto degli ottomani di costruire nuove chiese in territorio arabo. Nel centro Arrube incontriamo Micheal Petro, project director del Jrc, uno statunitense con capelli e barba rossa e i sandali ai piedi. Sta studiando per prendere gli ordini ed è l’unico vero gesuita che lavora nei quadri dell’organizzazione. «Prima dell’escalation ci occupavamo principalmente fornire uno spazio di aggregazione a varie comunità di migranti che in totale autonomia organizzavano iniziative di socialità o di autosostegno. Dal canto nostro ci occupiamo di assistenza legale e umanitaria, di raccogliere le donazioni che riceviamo dalle organizzazioni umanitarie locali e internazionali e dei contatti con le istituzioni per aiutare chi vuole rientrare nel proprio Paese e chi invece non vuole o non può, magari perché è fuggito da un contesto di persecuzione e di violenza, a restare qui. Sono 50 anni che il centro migranti Arrube è attivo e quando sono iniziati i bombardamenti decine di persone hanno cercato asilo da noi. Abbiamo deciso di lasciarli dormire qui perché la situazione era davvero disperata, ma con l’idea di trovare dei luoghi dove queste persone possano avere una sistemazione più stabile. Al momento ospitiamo circa 60 persone».

Camminando tra le stanze del centro gesuita vediamo tantissime ragazze africane e filippine, alcune con dei fogli in mano che gestiscono i turni per la lavanderia o per la cucina. Al piano di sopra ci sono gli uomini, «ma molti di loro durante il giorno escono a lavorare come operai o manovali per poter guadagnare qualcosa».

IN GENERALE, conclude Micheal, il contesto dei lavoratori migranti in Libano era già tremendo prima della guerra ma ora l’escalation ha accentuato le difficoltà di queste centinaia di persone che dalla popolazione libanese sono sostanzialmente ignorate, quando non apertamente osteggiate.

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