La vita, o quel che ne rimane, schiacciata tra due fuochi nel Libano del sud
Reportage Da un lato l’aviazione e l’artiglieria di Tel Aviv, dall’altro i missili di Hezbollah. In mezzo un disastro. Tra i pochi abitanti che ancora resistono a ridosso della Blue Line. «Questa guerra è peggiore delle precedenti e sarà molto più lunga»
Reportage Da un lato l’aviazione e l’artiglieria di Tel Aviv, dall’altro i missili di Hezbollah. In mezzo un disastro. Tra i pochi abitanti che ancora resistono a ridosso della Blue Line. «Questa guerra è peggiore delle precedenti e sarà molto più lunga»
Ogni mattina, prima di uscire di casa, Bashir raccoglie i detriti dei missili israeliani dal suo giardino. Bashir vive a Qlaiaa, una piccola cittadina a maggioranza cristiana situata a quattro chilometri in linea d’aria dalla linea di demarcazione tra Libano e Israele. Da più di un anno lui e la sua famiglia vivono a metà tra i due fuochi: da un lato l’artiglieria israeliana che dalla vicina Metulla prende di mira i villaggi di Khiyam e Kfarkila, a maggioranza sciita; dall’altro le forze di Hezbollah che rispondono con salve di missili.
PER DECENNI, questa piccola cittadina a ridosso della Blue Line delle Nazioni Unite ha risentito degli scontri tra l’esercito israeliano ed Hezbollah. Tuttavia, con l’avvio dell’invasione di terra israeliana, la portata dello scontro tra l’Idf e il braccio armato dell’organizzazione libanese ha conosciuto una significativa escalation, costringendo la maggior parte degli abitanti di Qlaiaa a evacuare. Dei 5000 residenti prima dello scoppio della guerra oggi ne rimangono circa 1700.
Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, dal 23 settembre scorso circa un milione di persone hanno abbandonato il sud del Libano e la valle della Bekaa per sfuggire ai bombardamenti israeliani. Allo scoppio delle ostilità, Qlaiaa è stata una tra le prime cittadine ad aver ricevuto l’ordine di evacuazione da parte dell’Idf.
MOLTI SI SONO SPAVENTATI e hanno abbandonato. Chi è rimasto si è organizzato per affrontare la situazione, nonostante la quotidianità sia dominata dalla paura.
«La guerra, qua nel sud del Libano, è iniziata più di un anno fa. Ben prima del 7 ottobre. Siamo stanchi di questa situazione», confessa Bashir. Il ronzio dei droni è incessante sopra Qlaiaa. «Giorno e notte. Sanno tutto di noi. Siamo sorvegliati 24 ore su 24» racconta Cristine, moglie di Bashir. La loro figlia Rita, 12 anni, non dorme mai la notte. Il rumore dei combattimenti è troppo forte. Quasi tutti i suoi amici se ne sono andati. Le lezioni sono online. Troppo pericoloso trovarsi in presenza a scuola.
NEL FRATTEMPO, LE CAMPANE iniziano a suonare a festa. È domenica a Qlaiaa e la chiesa è stracolma. Le signore, vestite di tutto punto, si scambiano calorosi abbracci. I bambini giocano con la corda della campana facendola suonare ripetutamente. Gli uomini si lamentano della situazione. In sottofondo il suono delle mitragliatrici dei combattimenti vicini.
È tempo di mangiare e la moglie di Bashir ha preparato il pranzo. Sulla poltrona, in salotto, siede Chames, mamma di Bashir, residente da più di quarant’anni a Qlaiaa. Chames le ha vissute tutte le guerre. Quella del 1978, la successiva del 1982 sino all’ultima del 2006. Sorseggia il caffè dolcemente mentre accarezza la tazzina. Le braccia conserte. Il sorriso gentile. «Questa guerra è peggio di quelle passate e sarà molto più lunga. Anche per questo motivo abbiamo deciso di non lasciare la nostra casa».
DUE FORTI BOATI la interrompono: «Sono sonic boom dei jet israeliani. I bombardamenti iniziano nel tardo pomeriggio e vanno avanti per tutte la notte», interviene Bashir.
Chames continua: «Siamo rimasti qui, ma stiamo subendo moltissimi bombardamenti e attacchi, e la guerra peggiora sempre di più. Ci colpiscono dal cielo e con l’artiglieria. Non c’è più vita, non ci sono più negozi, non è rimasto nulla. Non c’è farina, non c’è pane, non c’è più niente. Le nostre provviste sono finite e le nostre case sono danneggiate».
La città vive una fortissima crisi economica. Le strade sono vuote. Solo un caffè e un piccolo negozio di alimentari sono rimasti aperti. Le attività commerciali e agricole si sono fermate. Lo sa bene Nabil, sulla cinquantina, agricoltore. La raccolta delle olive non è andata bene per lui quest’anno. Molti olivi sono stati danneggiati dai bombardamenti. Nessuno poi vuole comprare l’olio di questi tempi.
«IN QUESTA ZONA – racconta – il lavoro si è bloccato. Una guerra che non avrebbe dovuto iniziare, ma è successo. Ci ha colti di sorpresa. Anche dal punto di vista economico è un disastro. Prima del conflitto la situazione era buona. La gente viveva, tutti erano impegnati nel proprio lavoro. Ora non c’è più nulla – conclude – tutti sono a casa».
Secondo le stime di George Mitri, direttore del programma «Terra e Risorse Naturali» presso l’Università di Balamand in Libano, all’inizio della guerra ben oltre 5000 ettari sarebbero stati bruciati come effetto dei bombardamenti israeliani. In un territorio, quello del Libano meridionale, in cui l’agricoltura rappresenta l’80% del Pil secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo.
LA FAMIGLIA DI BASHIR è solo una della tante che ha deciso di restare nel sud del Libano nonostante il forte stress psicologico a cui sono sottoposte, con continui combattimenti ed esplosioni nelle aree circostanti. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale del governo libanese, dall’inizio dell’invasione israeliana le azioni militari dell’Idf hanno portato alla distruzione di 37 città e oltre 40.000 unità abitative.
«Non abbiamo alternative – dice Nabil – se non quella di restare».
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