Internazionale

Tra fango e gelo, le tettoniche dell’ordine internazionale

Tra fango e gelo, le tettoniche dell’ordine internazionaleUn soldato ucraino su un carro armato russo catturato a Donetsk – Ap

Il limite ignoto Nei toni usati da Putin e Biden è evidente l’inconciliabilità e il rifiuto di ogni compromesso. Il nodo «sicurezza comune» coinvolge ora il Global South (Africa, ASia e America Latina)

Pubblicato più di un anno faEdizione del 24 febbraio 2023

Più gli ingranaggi della guerra avanzano, più appare chiaro il loro nesso con le tettoniche dell’ordine internazionale. Sul campo di battaglia, il regime di Putin invoca l’eroismo del combattimento patriottico per i confini storici, ma è piagato dall’efficienza militare declinante: sacrifica sempre di più per ottenere sempre meno. A un anno dall’inizio dell’invasione, i morti si contano ormai a centinaia di migliaia, mentre il numero di militari russi in Ucraina è raddoppiato. L’intelligence occidentale parla di 320.000 soldati. Sempre più uomini, sempre più bare: un massacro di centinaia di morti al giorno, per ammissione del boss dei mercenari di Wagner, Prigozhin. Nonostante l’intensità del combattimento, non si sfonda: manca persino la conquista di quel che resta di Bakhmut. Pur riadattata, la logistica dell’offensiva russa resta sotto tiro. Mosca ha fortificato le difese per resistere all’annunciata controffensiva ucraina ed evitare gli esiti già visti a Kharkiv o di Kherson.

Nonostante la stanchezza e il gelo si è combattuto per tutto l’inverno, e un po’ da ovunque arriva la richiesta di armi più potenti e più munizioni. Il fronte che un anno fa vide l’offensiva procedere da diverse direttrici ha finito per concentrarsi lungo una linea di circa mille chilometri, che si moltiplicano se si aggiungono le tensioni che si accumulano lungo i confini con Bielorussia e Transnistria.
Sfidato dalla visita a sorpresa di Biden a Kyiv, Putin ha confermato tutti gli obiettivi annunciati un anno fa, esplicitando la situazione di minaccia esistenziale nella quale si troverebbe la Russia. Il ricatto è esplicito: la Russia o è e agisce con l’impunità della grande potenza, oppure non è, e verrà spazzata via. Tale rappresentazione, che confonde il regime con il Paese, si riverbera nella dottrina nucleare russa, che contempera l’impiego dell’arma nucleare in caso di minaccia esistenziale. Da tempo il Cremlino non fa che affidarsi alla propria capacità di distruzione sul teatro di guerra, facendo affiorare ai margini (es. nel Baltico) la minaccia di super-armi e della destabilizzazione. È verosimile che l’annunciata sospensione di Mosca del trattato New START porterà all’interruzione degli scambi informativi di routine, acuendo la possibilità di valutazioni erronee e di incidenti dalle conseguenze inimmaginabili. Sul piano diplomatico, una parte dell’Occidente è innervosita dall’arrivo della diplomazia cinese a Mosca e dall’impiego della parola pace, che teme possa dar respiro a un regime che dopo un anno di errori vistosi sembrava oggi politicamente nell’angolo.

La Cina finora non definisce la Russia un alleato, ma un partner, in vista dei propri obiettivi strategici. Le sorti declinanti di Mosca e l’impatto della guerra sull’economia globale la preoccupano, e spiegano la Global Security Initiative cinese, proposta ‘aperta e inclusiva’ che prelude forse a una visita dello stesso Xi. Lo stesso Wang Yi ha ripetuto più volte – da ultimo nei colloqui con l’europeo Joseph Borrell – che la Cina si attiene alla linea di non fornire armi alle parti in guerra. Avanza però la guerra: la Siria, e l’Afghanistan ci ricordano come , approfondendosi, si creano la basi per la sua espansione, coinvolgendo altre parti. La reazione stizzita di Pechino alle pubbliche intimazioni di Washington a non fornire armi ai russi mostra come la leadership cinese non abbia nessuna intenzione di giocare di rimessa facendosi dettare la parte: essa agisce coerentemente, presentandosi all’appuntamento dell’anno di guerra con una propria visione della pace. La visione olistica relativa alla sicurezza comune coinvolge il Global South del mondo (Africa, Sud-Est asiatico, America Latina), articolando forse per la prima volta una visione compiutamente post-coloniale della pace, un’offerta che supera l’idea di Biden di riservare un posto all’Unione Africana nel G20. Critica dell’unilateralismo e del protezionismo americano, Pechino fatica a ragionare lungo i binari di un aggressore e un aggredito. Certo non manca ai cinesi la cognizione dell’impatto destabilizzante dell’invasione, che scardina il principio di non intervento e minaccia continuamente l’escalation nucleare. Tuttavia, l’enfasi tutta ideologica con la quale Biden si intesta in queste ore la difesa della democrazia liberale contro gli stati autoritari non fa che approfondire il solco con Pechino.

È proprio l’idea di uno scontro ideologico, per certi versi esistenziale, ad essere esasperata in coincidenza con l’anniversario della guerra, sottolineando in tal modo l’importanza della dimensione simbolica e del consenso. Nei toni usati da Putin e Biden è evidente l’inconciliabilità e il rifiuto di ogni compromesso. Questa enfasi sulla dimensione ‘esistenziale’ e non negoziabile traspira anche nelle parole pronunciate a Kyiv dalla premier italiana Meloni, durante una visita segnata dalle contraddizioni della destra italiana rispetto alla Russia ed affascinata dalla difesa ‘della nazione e dell’identità’ che ha mobilitato gli ucraini: Meloni si è rivelata incapace di evocare altro che  uno schema di libertà della nazione attraverso un traballante, romantico paragone con il Risorgimento italiano.

Nei toni sempre più accesi che accompagnano l’anniversario dell’inizio della guerra si è persa la nozione di responsabilità dell’agire politico che l’ultranovantenne Jurgen Habermas, con un lungo, appassionato e lucido intervento, ha provato a riaffacciare sul dibattito, appoggiando esplicitamente la linea di misura adottata dal Cancelliere Scholz in materia di trasferimento di armamenti. La storia della guerra moderna mostra quanto essa si riveli uno strumento poco ammansibile, che tende a protrarsi, a coinvolgere altre parti, ed essere generativa di nuovi ordini sociali e politici. Per quanto imprevedibile possa rivelarsi il corso della politica a Mosca, l’idea di una guerra breve, ribadita anche da Zelensky in questi giorni, non trova alcun fondamento.
Davanti al livello inenarrabile di distruzione e disprezzo della vita sul quale il regime putiniano punta per sopravvivere, alle incognite dell’escalation e al ritorno di nazionalismo e militarismo, è preziosa ogni iniziativa che reintroduca un principio di responsabilità e negoziato politico.

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