Prima visione televisiva – nella notte di venerdì che, dalle 01.20, Fuori orario dedica ai «Racconti (crudeli) della giovinezza» – di uno dei capolavori, se non «il» capolavoro, della storia del cinema delle Afriche. Si tratta di Touki Bouki (Il viaggio della iena) e risale a quasi cinquant’anni fa, al 1973, quando il regista senegalese Djibril Diop Mambety esordì con questo film nel lungometraggio dopo due opere più brevi (Contras City e Badou Boy) che già tracciavano il segno di una poetica sperimentale e di una libertà espressiva inedite nel panorama cinematografico di un intero continente e oltre. E ancora oggi Touki Bouki rimane un testo filmico inimitabile. La World Cinema Foundation di Martin Scorsese lo ha restaurato alcuni anni fa rendendolo in tal modo disponibile alla visione per nuove generazioni di spettatori.

IRONIA feroce, situazioni surreali, decostruzione di una narrazione tradizionale sono al centro di Touki Bouki, si manifestano in ogni inquadratura. Il film si apre e chiude con un bambino che guida una mandria al macello sulle note di un flauto. Una scena che, al tempo stesso, contiene il movimento e l’immobilità per dare l’idea di un tempo sospeso, di uno spazio dal quale non si può fuggire. Tra quelle due scene che «incorniciano» il film prende forma la storia di un’utopia, della necessità del mettersi in viaggio, a qualunque costo, di due giovani di diversa estrazione sociale. Si amano e la loro meta è Parigi, così insistentemente evocata dalla canzone di Joséphine Baker, dove il nome della città è parola ripetuta fino all’ossessione, ironica e tragica, che spinge appunto al movimento per poi interromperlo. Anta è una studentessa universitaria che si ribella al vivere sottomessa, che indossa abiti maschili (tranne nel finale), porta i capelli corti e con il suo fisico androgino attraversa le immagini. Mory è stato un pastore e si aggira per le strade con la sua inseparabile motocicletta sulla quale ha montato delle corna di zebù trasformandola in un corpo cyborg, fusione di carne, ossa, metallo.

Touki Bouki è fatto di continue false partenze, è un girotondo che i due amanti rappresentano per le strade di Dakar (città amata e indagata da Diop Mambety in tutto il suo cinema) e nei suoi dintorni (la spiaggia e il mare, la piscina di un hotel di lusso, il porto, la nave in partenza). In quegli spazi labirintici creati da Diop Mambety Anta e Mory (interpretati dagli esordienti Mareme Niang e Magaye Niang) agiscono la propria sovversione allo stato di cose dominante, ma sono falsi movimenti, gesti che non liberano, che si ripetono e riportano al punto d’inizio, interrotti e ri-presi nel puzzle concreto e onirico costruito dal regista e composto di dettagli, distorsioni sonore, fratture diegetiche al fine di dare forma a una straordinaria unità attraverso il ricorso a una continua frammentazione visiva e narrativa. Per re-inventare, più di chiunque altro, l’Africa e il suo cinema, facendo coesistere comicità e sperimentazione, surrealismo e tragedia, documentario e finzione.
In Touki Bouki (che fu presentato al festival di Cannes del 1973), montato e sonorizzato a Roma, la cantante jazz Aminata Fall, oltre a prestare la sua magnifica voce, è anche attrice, riversando nelle scene da lei interpretate la sua enorme carica di energia – come farà in seguito in Le franc, uno dei pochi altri titoli della filmografia di Diop Mambety, che non ha mai smesso di riflettere sulla società e le responsabilità dell’Occidente sulla condizione africana, interrottasi troppo presto con la scomparsa del regista nel 1988 a cinquantatre anni.