«Tortura» di Stato a San Gimignano
Giustizia Uno spaccato della vita in carcere nelle motivazioni della condanna emessa dal Tribunale di Siena per 5 agenti penitenziari. «Ripugnante e disinvolto esercizio di violenta disumanità» per «esibire manifestazioni di dominio» a «guisa di aberrante e perversa forma di pedagogia carceraria»
Giustizia Uno spaccato della vita in carcere nelle motivazioni della condanna emessa dal Tribunale di Siena per 5 agenti penitenziari. «Ripugnante e disinvolto esercizio di violenta disumanità» per «esibire manifestazioni di dominio» a «guisa di aberrante e perversa forma di pedagogia carceraria»
«Quanto emerso corrisponde ad un ripugnante e disinvolto esercizio di violenta disumanità e di ostentato disprezzo nei confronti di una persona detenuta, praticato per giunta in assenza del benché minimo indice o cenno di atteggiamento violento o aggressivo da parte di quella persona». La sentenza che ha portato il Tribunale di Siena a condannare per tortura cinque agenti penitenziari del carcere di San Gimignano, infliggendo pene dai cinque anni e dieci mesi sino ai sei anni e sei mesi di reclusione è di quelle che andrebbero lette nelle scuole, nelle università e nei luoghi di formazione delle forze dell’ordine, sia per la sua lucidità, chiarezza e puntualità che per costituire un vero e proprio manuale di scienza giuridica e antropologia carceraria.
I fatti risalivano all’11 ottobre 2018 quando, utilizzando le stesse parole dei giudici senesi, «è stata posta in essere, da parte di una squadra composta da quindici agenti, assistenti e ispettori del Corpo di polizia penitenziaria in servizio presso la Casa di reclusione di San Gimignano, una spedizione punitiva ai danni di un detenuto straniero» al «solo scopo» di «esibire manifestazioni di dominio e in funzione di supposta deterrenza rispetto a comportamenti scorretti e mal tollerati, a guisa di aberrante e perversa forma di pedagogia carceraria».
LA FORZA E UNICITÀ della sentenza, che nelle sue argomentazioni di stretto diritto costituirà un precedente significativo da cui sarà difficile scostarsi, risiede tanto nella descrizione di dinamiche distorte e violente di vita carceraria quanto nella chiarificazione ermeneutica di tutti gli elementi costitutivi del delitto di tortura, così come definito dal Parlamento nel 2017 quando si arrivò finalmente alla sua codificazione dopo decenni di inadempienza normativa. Nella sentenza, infatti, si ricorda (e spero ne facciano tesoro tutti coloro che a destra vorrebbero cancellare il delitto di tortura dopo avere invece criminalizzato i rave) come esistano obblighi di natura internazionale e costituzionale. Le parole hanno sempre un senso nella linguistica costituzionale.
ALL’ARTICOLO 13 della Costituzione, a proposito della violenza verso persone private della libertà, il verbo punire è utilizzato, scrivono i giudici, «con una perentorietà del tutto ignota ad altre parti della Carta fondamentale, ossia nella tipica forma modale espressiva dell’obbligo». Dunque, nel definire i confini del delitto di tortura i giudici devono tenere conto sia della normativa internazionale (che prende forza in base agli articoli 10 e 117 della Costituzione) che di quella costituzionale.
Punire i torturatori di Stato non è mai facile. Nella sentenza si descrivono episodi di «gratuita violenza fisica e di abuso della forza, di brutale sopraffazione e di inumano sopruso». La ricostruzione dei fatti in questo caso è avvenuta grazie a una serie di circostanze favorevoli di tipo probatorio. C’è stata la concorrente disponibilità di lettere di denuncia da parte di detenuti, di immagini video riprese dalle telecamere di sezione, di denunce coraggiose e circostanziate di alcuni operatori dell’area educativa, della messa a disposizione di informazioni importanti da parte del Garante Nazionale, della serietà nel condurre le indagini da parte dei nuclei investigativi della stessa Polizia Penitenziaria, della trascrizione di intercettazioni degli imputati dal contenuto inequivocabile (imputato che si riferisce così alla moglie: «A me mi dispiace solo di una cosa: che a quello non l’ho scassato sano sano»).
A San Gimignano, come spesso accade, non si è trattato dell’eccesso di un singolo agente. «Alle ore 15.20 circa sono venuti nella cella di isolamento dove sono ubicato due ispettori e una ventina di agenti di polizia penitenziaria inveendomi contro dicendomi infame, pezzo di merda, pedofilo, venduto ecc. Inoltre sono stato colpito da un capoposto che puzzava di alcol attraverso lo spioncino con un pugno in fronte, dopo sono entrati in cella e mi hanno preso a calci e pugni e molti di loro facevano puzza di alcol». I giudici ricordano come «in tutte le lettere, poi, come teatro delle riferite violenze, aggressioni e minacce viene sempre indicato il medesimo luogo, ossia il reparto isolamento della Casa di reclusione di San Gimignano».
LE SEZIONI DI ISOLAMENTO penitenziario – usate in tal caso, ricordano i giudici, oltre i limiti prescritti dalla legge – costituiscono il luogo privilegiato delle violenze. Anche per questo Antigone, insieme a Physicians for Human Rights Israel, si sta battendo per la sua abolizione su scala globale. La sentenza senese spiega quali sono le condizioni strutturali entro cui può prendere forma la tortura. Tra queste c’è il regime di isolamento, di fatto e di diritto. I detenuti non devono mai essere sottratti agli sguardi di una sana vita comunitaria.
* Presidente Antigone
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