Sono le ultime 48 ore di campagna elettorale in Gran Bretagna. Keir Starmer Labour), Rishi Sunak (Tories), Ed Dewey (Libdems), Nigel Farage (Reform Uk) visitano gli ultimi cantieri, spillano le ultime pinte, baciano gli ultimi infanti e fanno gli ultimi spergiuri. Domani si torna alle urne dalle sette alle 22, nella tornata elettorale che tutti – sondaggisti, editorialisti, cuoche leniniane – danno per scontato vedrà il ritorno dei laburisti al potere dopo quasi una generazione.

I SONDAGGI li danno in vantaggio di 20 punti sui Tories. Secondo le proiezioni, Keir Starmer potrebbe battere la maggioranza di 179 seggi alla Camera dei Comuni assicurata da Tony Blair nello smottamento laburista del 1997, il famoso landslide che ancora inumidisce gli occhi dei presbiti fautori di una Terza via chiusa per frana ormai da anni. Grazie all’uninominale secco si profilerebbe una supermaggioranza di oltre duecento seggi che darebbe a Starmer la possibilità di rivoltare il paese come un calzino.

Nel segno di un cupio dissolvi politico fatto proprio anche da Macron, Sunak ha convocato le elezioni al 4 luglio quando avrebbe potuto aspettare altri sei mesi. Se non lo ha fatto è perché probabilmente sa che le news su mancata crescita, inflazione, sfascio della sanità pubblica e dell’ambiente, crisi degli alloggi saranno, allora, anche peggiori. Ma, quarto premier Tory in sei anni, Rishi ha ereditato un partito in permanente guerra civile, sfrangiato in correnti e spostato talmente a destra da risultare irrilevante rispetto al redivivo Farage, che lui ha stesso rimesso in gioco sei settimane fa annunciando la tornata di domani.

Donde questa sua campagna elettorale grottesca, crivellata da disastri, come la pioggia che lo infradiciava il giorno dell’annuncio, o lo scandalo delle scommesse taroccate dei suoi sull’annuncio della data, tipico di un paese di ludopatici – anziché bottegai, a voler aggiornare Bonaparte. Una campagna passata a ripetere che i laburisti dissangueranno i piccoli risparmiatori con un orrido salasso fiscale. Oltre a non tar-tassare il capitale lazzarone, Sunak promette un allettante servizio militare di leva per la generazione Z e che non esiterà a premere il bottone nucleare per difendere la libertà e la proprietà privata incarnate dalla Patria (sempre che glielo permetta Washington ovviamente), tutte cose che Starmer giura farà non meno spietatamente.

IL PARTITO LABURISTA di “Sir Keir”? Non ha più nulla di socialdemocratico, è un partito liberale. Anche per questo i liberaldemocratici di Ed Dawey (il loro ex leader, l’austeritario Nick Clegg è l’attuale, sottopagato portavoce di Meta) tentano disperatamente di catturare gli otto secondi a disposizione dell’elettore medio (prima che si distragga, secondo studi recenti) con numeri circensi che fanno sembrare Boris Johnson un severo personaggio di Racine (l’ultima dell’atletico Ed è il bungee jumping). A fare le veci dell’ex socialdemocrazia sono naturalmente i verdi, la cui irrilevanza risuona pietosa all’addensarsi di ogni prossimo uragano extra-metafora.
Mentre nel resto d’Europa riecheggia lo scalpiccio dei mocassini ur-fascisti, contemporaneo upgrade del fragoroso incedere degli stivali dei progenitori dei Fratelli d’Italia/Rassemblement National/Alternative für Deutschland – senza contare i passi delle ochette est europee, camuffati dalla foglia di fico a stelle e strisce – le isole britanniche fingono di confermarsi in controtendenza.

CON I TORIES INCAPACITATI, Farage diventerà la vera opposizione al revival neolaburista di Starmer. In queste ore, la sua ciurmaglia sta dimostrando il suo vero volto razzista. Il suo, quello di Nigel, resta sagacemente ben nascosto. E perché indignarsi? La destra che fa la destra è sempre e comunque meno peggio della sinistra che non fa la sinistra.

I CENTRISTI EUROPEI, un carrozzone con ormai solo posti in piedi, si ostinano a chiamarla ancora destra populista, dopo averne annaffiato la malapianta per decenni pur di non finire in balia del “marxismo”. Starmer il pragmatico ha detto che ci lavorerà, con Marine Le Pen. Dopotutto è quello che fanno i politici seri, e lui è serissimo: così come ha purgato la sinistra corbyniana e orchestrato un untuoso rapprochement del partito con il grande capitale, altrettanto intende fare con il paese grazie a un programma riassunto dalla deliberata vaghezza gattopardesca dello slogan Change. Tutto il cambiamento è riassunto nella solita promessa farlocca della “crescita”, che anziché il Pil, ormai riguarda solo le temperature, il livello dei mari, l’inflazione. Nessun cenno all’eliminazione della medievale Camera dei lords, le nazionalizzazioni promesse perse per strada: erano corbellerie socialiste.
Gli exit poll di domani sera daranno uno schizzo dei risultati, l’esito finale lo conosceremo nelle prime ore di venerdì.