In una giornata di aprile di trent’anni fa a Molfetta si incontrano don Tonino Bello, vescovo della cittadina pugliese e presidente di Pax Christi, e monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea e suo predecessore alla guida del movimento cattolico per la pace.

DOPO UNA MESSA celebrata su una tovaglia tessuta a mano da alcune donne bosniache, croate e serbe – etnie sorelle della ormai ex Jugoslavia dilaniata dalla guerra – i due vescovi sottoscrivono un appello che mantiene ancora la propria potenza e che, se non fosse datato 1993 e rivolto ai Balcani, sembrerebbe scritto oggi, al tempo della guerra in Ucraina.

«A tutti diciamo: deponete le armi, sottraetevi all’oppressione dei mercanti della guerra, afferrate strumenti di pace, date l’esempio all’Europa e al mondo, non più di irrazionalità e di sottomissione a forze perverse e dirompenti, ma di capacità di programmare e costruire le vostre patrie in un mondo nuovo, di comprensione e di solidarietà. E voi, responsabili dei Paesi più ricchi e potenti del mondo, dagli Usa all’Europa, non sottraetevi alla responsabilità di influire in modo determinante, non con le armi che consolidano la vostra potenza e le vostre economie, ma con efficaci mezzi di pressione e di dissuasione, per fermare questa carneficina, che disonora insieme chi la compie e chi la tollera».

POCHI GIORNI DOPO, il 20 aprile, don Tonino Bello muore, stroncato da un tumore allo stomaco contro cui combatteva da anni. La pace e la giustizia, l’antimilitarismo e il disarmo sono state le scelte evangeliche che hanno ispirato il suo ministero e la sua azione pastorale e sociale.

Opzioni trasformate in battaglie nonviolente condotte con una radicalità che molto spesso, soprattutto sui temi degli interventi militari, degli armamenti, dell’obiezione di coscienza al servizio militare, degli immigrati albanesi che all’inizio degli anni ‘90 iniziavano ad arrivare sulle coste pugliesi, lo fanno scontrare con i settori atlantisti e di destra del mondo politico e lo rendono poco simpatico alle gerarchie ecclesiastiche conservatrici guidate dal presidente della Cei Camillo Ruini che non condividono le sue posizioni “estreme”, in realtà solo profondamente fedeli al Vangelo.

Salentino di Alessano, dove nasce nel 1935, Tonino Bello viene ordinato prete nel 1957. Diventa parroco, prima ad Ugento, poi a Tricase, dove il suo impegno comincia a delinearsi, sulla scia del Concilio Vaticano II: fonda la Caritas, promuove l’Osservatorio sulle povertà, organizza incontri sui temi della giustizia e della pace. Nel 1982 viene ordinato vescovo della diocesi di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi, anche se continuerà a farsi chiamare don Tonino e a rifiutare i segni del potere clericale.

La sua è la «Chiesa del grembiule», una delle immagini più efficaci che conia: «l’accostamento della stola con il grembiule a qualcuno potrà apparire un sacrilegio», scriveva, «eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato nel Vangelo che, per la “messa solenne” celebrata da Gesù nella notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il maestro si cinse ai fianchi» per lavare i piedi agli apostoli.

È IL SOGNO della «Chiesa dei poveri» di Giovanni XXIII, dei vescovi progressisti del “patto della catacombe” e della teologia della liberazione, che nella sua diocesi si traduce nel sostegno alle lotte dei disoccupati, dei senza casa e dei migranti, accolti in un palazzo vescovile con le porte spalancate, non solo simbolicamente.

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LA NONVIOLENZA e il disarmo sono le direttrici dell’impegno di don Tonino, che diventa uno dei punti di riferimento del movimento pacifista italiano, sia cattolico – nel 1985 succede a Bettazzi alla presidenza di Pax Christi – che laico: interviene contro la militarizzazione della Puglia – dal mega poligono di tiro nella Murgia barese all’installazione degli F16 a Gioia del Colle –, marcia a Comiso contro gli euromissili, attacca le politiche di riarmo di Spadolini (ministro della Difesa del governo Craxi), sostiene la campagna che nel 1990 porterà all’approvazione della legge 185 che regola l’export di armi.

Nel gennaio 1991, quando Usa e alleati occidentali iniziano a bombardare Baghdad dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, Tonino Bello invita i parlamentari a non votare a favore dell’intervento armato dell’Italia e, davanti alle telecamere di Samarcanda di Michele Santoro preso in contropiede da quello che potrebbe sembrare un invito alla diserzione, esorta i militari a «scendere dall’aereo che va a bombardare le città irachene» e ad «obbedire alla propria coscienza che gli dice di non uccidere» e non agli «ordini dei superiori».

SUBITO DOPO un’altra guerra, nei Balcani, nel cuore dell’Europa. Don Tonino, già gravemente malato, si unisce comunque ai cinquecento pacifisti che, organizzati dai Beati i costruttori di pace, nel dicembre 1992 marciano per la pace a Sarajevo, sotto assedio da aprile, raccontando anche i momenti salienti di quell’esperienza anche sulle colonne del manifesto, con cui collabora dal 1990. La strada per la pace è la «nonviolenza attiva, gli eserciti di domani saranno questi uomini disarmati», dice in un cinema della città bosniaca senza elettricità, illuminato da fiaccole e candele.

QUATTRO MESI dopo don Tonino Bello se ne va. «È morto un profeta della pace», scrive Filippo Gentiloni sul nostro giornale il 21 aprile 1993. Al funerale a Molfetta, presieduto da Bettazzi, ci sono sessantamila persone. Ma nei decenni successivi, la Chiesa istituzionale quasi lo cancella. Oltre Pax Christi e chi non lo ha mai dimenticato, a farlo riemergere dall’oblio è papa Francesco, che cinque anni fa si è recato in visita nel cimitero di Alessano, dove don Tonino è sepolto. Forse verrà fatto santo – l’iter è partito da anni, ultimamente anche in Vaticano qualcosa si muove. Sicuramente non sarà mai un santino.