La presa di Notre-Dame da parte dei Vietcong
La storia Il 19 gennaio 1969 la bandiera dei Vietcong sventolava sulla guglia di Notre-Dame a Parigi. Fu un evento che pose l’apertura dei negoziati in città con gli Usa sotto l’egida del Fronte nazionale per la liberazione del Vietnam. Gli autori di quell’impresa, tre giovani cittadini svizzeri, dopo oltre mezzo secolo di anonimato hanno deciso di raccontare come andò
La storia Il 19 gennaio 1969 la bandiera dei Vietcong sventolava sulla guglia di Notre-Dame a Parigi. Fu un evento che pose l’apertura dei negoziati in città con gli Usa sotto l’egida del Fronte nazionale per la liberazione del Vietnam. Gli autori di quell’impresa, tre giovani cittadini svizzeri, dopo oltre mezzo secolo di anonimato hanno deciso di raccontare come andò
Gennaio 1969, apertura delle trattative tra il Nord-Vietnam, il Fronte nazionale di liberazione (i «Vietcong») e gli Usa con la loro creatura, il governo di Saïgon, un anno dopo l’«offensiva del Têt». La domenica 19 gennaio, un evento memorabile: per l’inizio dei negoziati, su Notre-Dame di Parigi sventola un grande stendardo dell’Fnl.
OPERAZIONE NOTRE-DAME. Noi tre Svizzeri, Bacchus, Noé e Olaf – ottuagenari oggi – condividevamo la disillusione per i tank «sovietici» a Praga sei mesi prima, un’ostilità generale nei confronti dell’imperialismo americano, e sei mesi più tardi ci unimmo in piena coerenza all’organizzazione trotskista Lega Marxista Rivoluzionaria.
Secondo noi nella Parigi di metà gennaio del ’69 erano riunite le condizioni per un atto dal simbolismo efficace nel rapporto tra forze di liberazione e campo imperialista. Il coronamento notturno della vertiginosa guglia dell’edificio più venerato del patrimonio francese – e tra i più venerati nel mondo – con il vessillo di una causa anticoloniale e antimperialista, fu riportato mondialmente, dall’Unità fino al New York Times. Quest’ultimo lo inserì l’indomani in prima pagina, giorno del giuramento di Nixon al Capitol, accolto da una grande manifestazione anti-guerra.
Siamo partiti alla vigilia da Losanna in macchina, una 2CV, con una grande bandiera di seta, una lunga corda e una sega per metalli. Ospiti clandestini del campanile sud, abbiamo camminato lungo il tetto della navata nella penombra, poi scalato in arrampicata libera la guglia Viollet-le-Duc, senza luce, non assicurati e abbiamo spiegato lo stendardo sulla croce sommitale.
La discesa si fece a corda doppia, tre successive dal tetto della navata fino al suolo. Avendo segato le sbarre di ferro che aiutano a salire, l’ascensione era ormai impossibile, cosicché i pompieri parigini dovettero organizzare la loro prima operazione elitrasportata, lasciando la bandiera fluttuare nel vento tutta la domenica e dando in questo modo la possibilità ai media internazionali di fotografare, filmare, commentare, intervistare. Così fu celebrata agli occhi del mondo la preminenza dell’Fnl sul regime fantoccio repressivo di Saïgon.
PERCHÉ RACCONTARE ADESSO. L’operazione Notre-Dame aveva un senso in sé stessa. La decisione di raccontare venne presa nei giorni seguenti il tragico incendio di Notre-Dame nell’aprile del 2019. Il fuoco fece da “grilletto”. Con nostra sorpresa, una settimana dopo l’incendio il Quon Doi Nhan Dan (giornale dell’Esercito popolare del Vietnam) affermò che la presenza, mezzo secolo prima, della bandiera dell’Fnl in cima a Notre-Dame andava considerata come uno degli eventi principali nella storia plurisecolare della cattedrale.
Che il giornale ufficiale delle forze armate d’uno Stato s’immischiasse del patrimonio architettonico millenario d’un altro Stato era un fatto non abituale e rivelava ex post l’importanza che il Vietnam aveva accordato – e accorda ancora – all’operazione Notre-Dame. Così, quest’azione fu un esempio precoce di disobbedienza civile che non mise in pericolo nessuno se non gli autori. Si distingue da altre azioni minoritarie dell’epoca, dalla Rote Armee Fraktion alle Brigate Rosse, le quali si sostituirono con la violenza a forze sociali inesistenti o in riflusso. Espresse con un simbolo forte e performativo il sentimento di milioni di dissidenti no-war nel mondo.
L’affermazione del giornale delle forze armate vietnamite implica che la nostra azione, anche se pacifica, equivaleva a un atto di guerra. Cosa che esprimemmo noi stessi nel sotto-titolo del manoscritto con «Le nostre trenta ore nelle guerra di trent’anni». E questo lo dobbiamo raccontare, giunti all’età di ottant’anni, alla giovane generazione che si trova al cospetto di un’altra guerra, la guerra contro l’umanità condotta dagli agenti della sesta estinzione di massa.
Abbiamo voluto raccontare la progressione verso le altezze di Notre-Dame, certamente. Ma anche ciò che ci indusse a prendere partito in questa che fu la guerra più omicida dalla fine della seconda guerra mondiale in poi.
Più difficile spiegarsi ciò che successe dalla presa di Saïgon nel 1975 ad oggi, con la riunificazione affrettata Nord-Sud, l’abbandono del programma politico dell’Fnl, la tragedia dei «boat people», il conflitto guerriero cino-vietnamita e il passaggio sbalorditivo all’economia di mercato d’orientamento socialista del 1986, che The Economist descrive nel 2005 con ironia provocatrice: «Vietnam: l’America ha perso, il capitalismo ha vinto».
Le condizioni per la ricostruzione del Paese erano inestricabili: le infrastrutture in rovina, l’economia ridotta a un artigianato familiare e un embargo generale americano che verrà soppresso solo nel 1994. Alle difficoltà oggettive vennero a sovrapporsi gli effetti perversi d’una direzione politica monolitica: i contadini nel sud avevano lottato per la terra e non per essere immediatamente raggruppati in cooperative ; l’apertura al capitale internazionale aveva riunito masse instabili di lavoratori a salari bassissimi, educati ma non qualificati, costretti a compiti di montaggio che impedivano la costituzione di una cultura operaia.
Questa massa operaia è rappresentata da un sindacato unico incapace di far rispettare il diritto del lavoro in tempi reali; non ha il diritto d’organizzarsi né territorialmente né per categoria, con la conseguenza di migliaia di scioperi selvaggi. Ironia della storia: l’adesione del «Vietnam a orientamento socialista» all’Organizzazione mondiale del commercio eminentemente capitalista nel 2007, venne contrastata dal fatto che i diritti dei lavoratori non erano rispettati…
È da notare che i padroni d’impresa hanno il diritto di organizzarsi, possono aderire al Partito comunista e i membri del partito possono dedicarsi all’imprenditoria, il che è di forte incitazione al nepotismo.
La composizione sociologica del partito e dello Stat, deriva in direzione di un nuovo drago capitalista a governo dispotico? O il popolo, oggetto della «Costituzione del popolo dal popolo e per il popolo» può ancora divenirne il soggetto? Il Generale Giap fece una considerazione pessimista della situazione poco prima della morte avvenuta nel 2013. In altri termini, il Vietnam ha ancora qualcosa da dire al mondo, come mezzo secolo fa? I Vietnamiti risponderanno alla questione.
IL NOSTRO ULTIMO COMPITO. I danni più duraturi causati dalla guerra americana sono quelli provocati, che provocano e provocheranno per molto tempo ancora i defoglianti, come l’agente Orange, rovesciati in quantità di 80 milioni di litri contenenti 400 chilogrammi di diossina di Seveso sui boschi, le culture e le popolazioni del Sud Vietnam, primo ecocidio deliberato della Storia.
Gli effetti diretti dell’assorbimento della diossina sono i tumori, il diabete di tipo 2, eruzioni cutanee, perturbazione generale del metabolismo. La diossina si lega fortemente ai recettori intracellulari, accedendo ai nuclei delle cellule dove è localizzato il Dna, provocandovi lesioni che si trasmettono di generazione in generazione. Al giorno d’oggi ancora seimila bambini nascono difformi ogni anno.
Tran To Nga, ex ufficiale di collegamento in seno al Fronte si liberazione nazionale, vittima dell’agente Orange, cita in giudizio Monsanto e 14 imprese americane produttrici di defoglianti, secondo il diritto di competenza universale. Noi tre abbiamo deciso di consacrare la totalità dei nostri diritti d’autore al sostegno della sua lunga battaglia.
traduzione di Massimo Sandri
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