Tommaso Buscetta, «personaggio» di una storia aperta
Cannes 72 «Il traditore» di Marco Bellocchio, il film sul «boss dei due mondi» interpretato da Pierfrancesco Favino. Unico titolo italiano in concorso, in cui la cronaca perde i suoi contorni in una dimensione universale
Cannes 72 «Il traditore» di Marco Bellocchio, il film sul «boss dei due mondi» interpretato da Pierfrancesco Favino. Unico titolo italiano in concorso, in cui la cronaca perde i suoi contorni in una dimensione universale
«Il traditore racconta di un uomo, Tommaso Buscetta, che tradisce Cosa nostra convinto che non sia lui a tradirla ma i Corleonesi, i rivali del suo schieramento … Perciò non si sentiva né un traditore, né uno spione né un infame… La sfida del film è proprio questa, rendere un personaggio duplice, forse triplice senza altarini né condanne». Così scrive Marco Bellocchio nelle note del pressbook a proposito del suo nuovo film, Il traditore – in sala da ieri,contemporaneamente alla presentazione in concorso al Festival di Cannes nell’ anniversario della strage mafiosa di Capaci, 23 maggio 1992, in cui vennero uccisi il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la loro scorta.
NEL FILM è un passaggio importante, reso attraverso il repertorio televisivo dei funerali nel momento fortissimo dell’accusa – in diretta tv – che Rosaria Costa la giovane moglie di uno degli agenti della scorta, Vito Schifani, fa agli «uomini dello stato«: «Io vi perdono ma dovete mettervi in ginocchio». Falcone era stato l’interlocutore diretto di Buscetta per le deposizioni che portarono al maxiprocesso contro la mafia – 475 gli imputati alla sbarra – dopo l’attentato Buscetta decise di fare i nomi fino allora taciuti «della politica», mentre Riina veniva arrestato. Anche questa è la storia del nostro Paese recente, passata, ancora aperta di cui Bellocchio nel film ripercorre almeno due decenni, dagli inizi degli anni Ottanta alla morte di Buscetta nel 2000, negli Stati uniti, per malattia e non sotto i colpi di arma da fuoco vincendo la sfida di morire nel proprio letto che si era dato quando aveva deciso di collaborare con la giustizia in cambio di protezione per sé e per la sua famiglia.
EPPURE Il traditore non è un film «storico», non in senso tradizionale almeno – nonostante la cura di ricostruzione degli ambienti e delle atmosfere di ogni epoca che attraversa, e la cifra di «realtà» della sua materia esplicitata nell’uso dei materiali d’archivio quasi tutti televisivi – è la nostra «memoria collettiva»? Le guerre tra clan, il cambiamento di Cosa nostra, gli intrecci tra questa e la Prima Repubblica fino al processo contro Andreotti lasciano balenare frammenti di Italia – e quella della criminalità è una interessante prospettiva da cui osservare i mutamenti sociali – ma al centro Bellocchio mantiene saldamente, e con chiarezza, il suo personaggio, Tommaso Buscetta, magnificamente restituito dall’interpretazione di Pierfrancesco Favino: non eroe né innocente al contrario di quanto affermano le sue affabulazioni – al massimo a suo dire aveva contrabbandato sigarette, niente droga niente omicidi e chissà perché era diventato «il boss dei due mondi» – ma soprattutto sempre un «personaggio» e mai «persona». È una differenza importante, perché è lì, nel passaggio dalla cronaca alla narrazione che Bellocchio (sua la sceneggiatura scritta insieme a Valia Santella, Francesco Piccolo, Ludovica Rampoldi) dichiara il proprio sguardo e mette in atto la sua ricerca di verità. Che non è, e non può essere univoca ma deve costruirsi sul dubbio, sulle ambiguità, nel nodo complesso del materiale col quale si confronta.
Palermo 1980, la guerra di mafia non dà tregua. Alla festa della riconciliazione ci sono Riina, Buscetta, Pippo Calò (Fabrizio Ferracane), Totuccio Contorno (Luigi Lo Cascio), Badalamenti (Giovanni Calcagno) le loro mogli e i figli, più che al Padrino il salotto di lusso che domina la città ricorda quello del ballo nel Gattopardo viscontiano. Al di là delle parole gli sguardi e le traiettorie dei corpi dicono che quella guerra non è finita, Buscetta decide di partire, va in Brasile lasciandosi alle spalle i figli maggiori, vittime designate, uno eroinomane, l’altro sbandato.
TENTA di avviare nuovi affari, di corrompere i politici locali per proteggere il suo traffico di eroina, ma lo arrestano, per lui c’è l’estradizione. Tornare a Palermo significa la morte, i suoi figli e molti altri della sua fazione sono stati già ammazzati. La giustizia gli offre una via di uscita: se collabora sarà libero, lui e la sua famiglia verranno nascosti in America con una nuova identità. Il suo interlocutore è il giudice Falcone (Fausto Russo Alesi): «Dottor Falcone, dobbiamo decidere solo una cosa, chi deve morire prima se lei o io», gli dice Buscetta in uno dei loro primi incontri.
Bellocchio racchiude il racconto nel melodramma verdiano, motivo ricorrente nei suoi film che gli permette di mettere in scena la realtà spogliata dal contesto per restituirla amplificata nella frontalità delle immagini, nei colori, nel suono del dialetto siciliano – parlate italiano dicono avvocati e giudici ai mafiosi durante il processo ascoltando la deposizione di Contorno che Lo Cascio trasforma in musica ancestrale. Siamo in un teatro nel quale ciascuno recita la propria parte, ciò che ha deciso di svelare e quanto rimane nascosto. Buscetta depone davanti ai giudici volgendo le spalle ai mafiosi che gli gridano infame: ma chi tradisce e chi è stato tradito? Il cinema di Bellocchio, sin dai primi film, guarda alla società per spostarsi su altri territori, verso una condizione umana che con le sue contraddizioni interroga la società stessa. C’è una linea che separa il «personaggio» Buscetta, terribile e seducente suo malgrado, dagli altri suoi interlocutori, da una parte la mafia, dall’altra lo stato: lo spazio della parola e quello dell’immagine, dell’inquadratura e della regia, un «faccia a faccia» in cui il regista di Parma trova il mondo e gli strumenti coi quale fare fronte a temi altrimenti «impossibili» altrimenti, come questo o come il terrorismo in Buongiorno notte. Quanto si può credere di ciò che dice Buscetta? La giustizia sa che mente, non esiste la mafia buona, la mafia è crimine e violenza gli dice secco Falcone distruggendo la sua auto-mitologia di vendicatore del tradimento di chi ha voluto cambiare le regole di Cosa nostra.
E PERÒ ha bisogno della sua parola, pur conoscendone i limiti e i silenzi dei non-detti. Atto dopo atto l’attualità che conosciamo perde i suoi contorni in una dimensione universale nella quale scorrono i temi cari a Bellocchio, i padri e i figli, i primi che divorano i secondi lasciandoli in un deserto, le forme del potere, le possibilità della rappresentazione. E se la parola può «tradire» l’immagine che non l’asseconda è rivelatoria, è il senso del cinema, il suo essere gesto politico, sguardo sul mondo.
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