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Tirare la coda al Leone

Tirare la coda al LeoneAntonio Rezza e Flavia Mastrella – foto di M. Biancardi

Teatro Antonio Rezza e Flavia Mastrella il 20 luglio ricevono a Venezia il Leone d'oro alla carriera per il teatro e la Biennale presenta dal 20 al 22 una rassegna dei loro lavori più recenti

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 14 luglio 2018

Flavia Mastrella e Antonio Rezza si aggirano per i quartieri popolari di Roma, fanno irruzione nelle case di ignari inquilini e attraverso performance – tratte dai loro storici spettacoli – e interviste paradossali aprono un squarcio nella quotidianità. «La tegola e il caso» è l’ultima creazione del duo artistico RezzaMastrella, che il 20 luglio a Venezia riceverà il prestigioso Leone d’oro alla carriera per il teatro.

Come avete accolto la notizia del Leone d’oro?

FM: Ci ha scioccato. La scelta è dipesa sicuramente da Antonio Latella che conosce bene il nostro lavoro.
AR: Abbiamo sempre cercato di farci invitare alla Biennale ma non è mai accaduto; la prima volta che ci invitano ci premiano con il Leone d’oro alla carriera, bisognerebbe chiedere ai direttori precedenti che lavoro facevano. Ringraziamo Latella e la Biennale perché questo è un incidente di percorso sublime. Il premio è importante per noi ma anche per tutti quelli che iniziano adesso, perché è la dimostrazione che senza accettare nessun compromesso, come abbiamo fatto noi, puoi fare quello che vuoi. Il fatto che quello che facciamo provochi un riso compulsivo ci ha sempre penalizzato. Vorrei spiegare tecnicamente quanto sia immensamente più difficile provocare un riso del genere che provocare il pianto, la commozione o la condivisione. Noi involontariamente comici, ma vicini al senso demoniaco della comicità, prendiamo un premio del genere. Non ci sono precedenti. Di solito chi è comico è più popolare e la popolarità non va d’accordo con la ricerca, noi abbiamo deriso questi meccanismi col lavoro che facciamo.
FM: Abbiamo inventato un metodo moderno per veicolare contenuti importanti attraverso il riso.

C’è chi potrebbe pensare che da anarchici non vi interessi un premio istituzionale.

AR: In questo caso no, ci godiamo tutto il prestigio del premio istituzionale che non abbiamo mai cercato.
FM: Per me è un punto zero da cui poter ricominciare perciò prevedo che il prossimo lavoro sarà esplosivo.
AR: Abbiamo sempre detto che non avremmo mai preso soldi ministeriali e lo facciamo ancora, per questo è un’anomalia il fatto che un premio di questo tipo venga assegnato a chi dice che le istituzioni non devono appoggiare la cultura economicamente, ma solo attraverso la concessione degli spazi. L’anarchia non è un comportamento politico, è darsi autonomamente delle regole.

Il vostro programma tv è andato in onda a giugno su Rai3, dopo diversi anni di assenza dalla televisione.Com’è nata l’idea della trasmissione?

AR: Sono circa 15 anni che questa proposta è sui tavoli dei vari direttori di rete. Era un’idea all’avanguardia allora e lo è ancora oggi. Ringraziamo Stefano Coletta per aver reso possibile il progetto.
FM: Nel 2016 ci hanno contattato dalla Rai chiedendoci un nuovo progetto, così abbiamo recuperato questa idea e l’abbiamo rielaborata dando più spazio all’improvvisazione. Il lavoro si chiama «La tegola e il caso» e ricalca «La regola e il caso» di Bruno Munari, uno scritto dedicato alla creazione spontanea, alla disinvoltura e alla casualità che deve essere sfruttata dal creativo. Trasferendo questo metodo nelle interviste, le abbiamo rese molto frizzanti.
AR: Entriamo nelle case senza nessun accordo, altrimenti ci rovineremmo la sorpresa. Le persone sanno soltanto che qualcuno arriverà per intervistarli ma nessuno sa che siamo noi, né che monteremo uno spettacolo. Chi ci riconosce quando apre la porta raramente ha il ritmo giusto. Con questo esperimento abbiamo dimostrato che chiunque può seguire lavori complessi come i nostri. Queste persone ridono in tempo reale mentre eseguiamo la performance e si emozionano. Nessuno è stupido. Poi chi vede il programma da casa a volte si arroga il diritto di dire: è una bella trasmissione ma non è per tutti. Quelli che detestiamo di più sono coloro che si ritengono gli unici depositari del nostro lavoro e si autocelebrano pensando di essere i soli a capire ciò che facciamo, ghettizzandoci nella loro mente.

Quando i proprietari aprono la porta della loro casa è come se aprissero un passaggio verso l’ignoto.

FM: Questo è il secondo format che inventiamo dopo i Troppolitani». Lo schema è rappresentato da una regia che lascia spazio all’azione spontanea. Siamo in strada, poi saliamo le scale, entriamo nelle case, spostiamo i mobili, Antonio si cambia, eseguiamo la performance…queste piccole regole fanno di questo lavoro una realtà sorprendente. Coloro che lavorano, il fonico ad esempio, sono visibili, e questo crea, per chi ci riceve in casa, un’atmosfera da viaggio fantastico. Sono completamente in balia degli eventi.

Nessuno era in imbarazzo di fronte alla telecamera.

FM: Quello dipende dalla supercomunicazione di Antonio e dal corpo lavorativo scelto, persone semplici che entrano nella casa e fanno subito simpatia. Non interrompiamo quasi mai la registrazione quindi loro non vedono la realtà noiosa della televisione. Tutti lavorano, nessuno guarda e questo permette a chi è in casa di non sentirsi invaso.

Vi hanno sorpreso le reazioni di chi vi ha ospitato?

AR: Certo, la naturalezza sorprende sempre. In un sistema dove la televisione è menzogna e finzione, non è uscita una riga sui giornali riguardo ad una trasmissione non basata su accordi e complicità. La critica in questo caso non ci interessa, ci hanno visto un milione di persone a sera. Le cose belle esistono e chi cerca ancora di nasconderle ha già perso la battaglia.

Sono emersi dei bei ritratti.

FM: Sì, li abbiamo amati.
AR: Sono diventati quasi dei familiari, perché nella casa rimaniamo al massimo un’ora e mezza per evitare che si crei una confidenza che annacqui la spontaneità, ma poi li osserviamo per mesi dentro al monitor durante il montaggio. Ci hanno regalato un’intimità inconsapevole. Quando li incontriamo li abbracciamo e a loro sembra spropositato, ma non sanno che abbiamo vissuto con loro tutto quel tempo. Si può anche amare qualcuno che trova spropositato il gesto.

Si potrebbe scrivere un trattato di antropologia.

FM: È ricerca sull’essere umano. Il professore pacifista che diventa violento in 10 minuti. La sarta che si è sposata giovanissima, con un uomo molto più grande di lei che non gli permetteva di fare niente. Poi è morto e lei è rinata. Quando lo racconta si vede la tragedia di quello che ha vissuto e lo dice ad un milione di persone.

Normalmente le vostre prove sono aperte a chiunque voglia partecipare, avete riproposto questo metodo nella trasmissione?

AR: In realtà l’idea di far interagire gli inquilini è venuta dopo. Quando Flavia ha proposto di farli partecipare alla performance ci si è aperto un mondo.
FM: È più munariana come prassi: tutti, se messi in condizione, riescono a fare e non è detto che un oggetto serva solo a quello per cui è stato ideato. Il linguaggio è sempre stratificato.

I dialoghi incentrati sul paradosso sono potenti ed ironici al tempo stesso. Le persone hanno faticato a stare dietro ai vostri ragionamenti?

FM: Non si sforzavano, gli veniva naturale.
AR: Le persone vere amano il paradosso, lo sperimentiamo ogni giorno. Lavoriamo vicino ad un centro anziani e qualunque cosa assurda io dica, loro si attaccano come sanguisughe e non vogliono perdere l’assurdità. Il problema è che quando si vede la televisione, si diventa giudici di quello che si guarda e spesso non si ama più il paradosso. Invece le persone vive, fatte di carne, non quelle filtrate dalla lente dello schermo, adorano essere stupite.

Parliamo anche dell’estetica.

FM: «La tegola e il caso» è girata con quattro macchine ed ha una struttura dialettica ed estetica molto diversa da quella standard Rai. Realizziamo immagini sporche e a volte sbagliate per aumentare il pathos di chi guarda. Inoltre senza la nostra troupe sarebbe svanita la passione della comunicazione con l’immagine. Non è solo la parola che combatte ma anche l’estetica.
AR: Io ho urlato nella penultima puntata per 56 secondi in prima serata, associando questo urlo alla povertà. Non credo l’abbia mai fatto nessuno. Abbiamo ricevuto delle testimonianze commosse.

Non credete sia necessaria una certa abitudine a questo tipo di linguaggio?

AR: E quelli che abbiamo trovato nelle case? È qui che crollano tutte le prevenzioni nei nostri confronti. Chi abbiamo intervistato non ci conosceva, gente anche in là con l’età ma che si è subito abbandonata. Le cose belle sono per tutti.

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