Ti regalerò una rosa (di nomi). La gara infernale tra major
Sanremo Sempre più massiccia la presenza delle grandi case discografiche. L'effetto streaming e Amadeus hanno abbassato l'età media degli spettatori
Sanremo Sempre più massiccia la presenza delle grandi case discografiche. L'effetto streaming e Amadeus hanno abbassato l'età media degli spettatori
Al termine del mondiale di Formula 1 ci si ricorda sempre del pilota vincitore; sono pochi a celebrare il titolo costruttori, a parte le scuderie che all’ombra del podio incassano il premio. In gergo discografico lo stesso termine «scuderia»designa tradizionalmente rosa di artisti; e non è un caso che i motori delle major tornino a rombare sul circuito sanremese dopo qualche anno di apparente distanza. In principio era il comune ligure a chiamare le case discografiche, che affittavano i lampioni cittadini per apporvi le foto dei loro assi in gara. Un brand positioning che fa tenerezza. Ma già a metà anni Sessanta l’industria del disco aveva ormai le mani sulla città, imponendo i nomi dei concorrenti e anche dei direttori d’orchestra.
Amore e odio, sul palco dell’Ariston. Litigi epocali come quello del ‘75, quando le major boicottano il Festival: accordi mancanti non solo in termini musicali. Battibecchi più recenti sui compensi e su un format televisivo da svecchiare. Solo quattro anni fa, Universal sentenziava: «Sanremo è irrilevante per i nostri bilanci. Il music business si identifica con i consumi dei giovani». Si era in pieno strapotere Sony, tanto che lo stesso Baglioni — presentatore e direttore artistico nel 2018-’19 — era sotto contratto con la casa nipponica, dominatrice fino allo scorso anno: nove big in gara nel 2021, e casse che ancora tintinnano per il trionfo internazionale dei Måneskin e i successi di Colapesce e Dimartino, diversamente indie.
QUEST’ANNO invece è proprio Universal a premere sull’acceleratore, occupando quasi per metà la griglia di partenza. Emma, Michele Bravi, Elisa, Rkomi, Giovanni Truppi, Dargen D’Amico, Yuman, Matteo Romano, Tananai, Mahmood e Blanco. Dieci brani su venticinque recano il marchio della multinazionale o delle sue etichette satelliti: Polydor, Virgin, e soprattutto Island sono come una McLaren che monta motore Mercedes, per restare in tema. Un atto di forza che era lecito attendersi dopo l’ingresso in borsa dello scorso settembre, accolto con giubilo dagli investitori, consapevoli che streaming e diritti musicali promettono ormai dividendi maggiori di quelli degli stessi artisti.
SENZA DIMENTICARE l’effetto Amadeus, che ha abbassato di molto l’età media degli spettatori riaccostandola a quella degli utenti musicali anche grazie al massiccio ricorso a streaming e social, sulla base degli accordi con le stesse case discografiche per gestione dei diritti e monetizzazione dei contenuti. E così il gap azionario della Universal nei confronti delle altre major si vede proiettato sul palco di Sanremo. Sei le presenze per Sony, quattro per Warner, due per Bmg (Rettore e Ditonellapiaga, che però gareggiano insieme). Non è un paese per indie, se Sugar, Believe e Artist First devono accontentarsi di un posto a testa, sperando nell’exploit. Perché a differenza della Formula 1 non è strettamente necessario il primo posto per balzare in testa alla classifica. Finché la borsa va…
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