Abbigliamento estroso e sound divertente. Occhiali da sole perenni, come la neve ad alta quota. Una confezione un po’ kitsch che cela al suo interno un artista riflessivo e strutturato. Dargen D’Amico, classe 1980, oggi in piazza Garibaldi a Parma inaugura il suo tour estivo. Ha scritto in oltre venticinque anni di carriera centinaia di canzoni. Tra giochi linguistici, turbamenti esistenziali e sarcasmo ci si trovano dentro anche riflessioni sul mondo.

Lei ha iniziato a fare musica alla fine degli anni novanta ma per una grossa fetta di pubblico è comparso solo nel 2022, con la hit sanremese «Dove si balla». Che artista è stato Dargen in tutti questi anni?
È stato un periodo felicissimo. Ho avuto la fortuna di produrre i primi dischi in un momento in cui c’era l’accessibilità agli strumenti per fare musica ma ancora non la facevano in molti. Poi erano ancora presenti fanzine, testate, giornalisti specializzati che si interessavano alle novità musicali. Ho avuto la possibilità di fare dischi che nessuna etichetta discografica major avrebbe mai prodotto e poi di andare a suonare dal vivo. È stato un periodo luminescente, riuscivo anche a prendermi meno sul serio, facendo cose a un livello underground. Poi c’erano un sacco di locali medio-piccoli in cui si poteva fare musica dal vivo, molti purtroppo hanno chiuso, soprattutto dopo la pandemia.

All’epoca sognava il salto nel mainstream?
Non ho mai sognato di fare l’artista. Vengo da un’epoca in cui a essere considerati artisti erano in pochi, solo i grandi, parte di un catalogo molto ristretto, un Olimpo limitatissimo. A me sarebbe piaciuto scrivere delle storie per il cinema se proprio avessi dovuto scegliere. Poi mi piace la musica, mi piace produrla, mi piace lavorarci. Diventarne protagonista invece è avvenuto per caso.

C’è un aspetto negativo dell’essere arrivato al grande pubblico tardi?
Non riesco a trovare aspetti negativi.

Forse il fatto di aver guadagnato meno?
Non ne sono sicuro. Credo sia pericoloso guadagnare molti soldi quando sei molto giovane. È pericolosa anche la distorsione della propria immagine che hai quando sei giovanissimo. Adesso forse l’unico elemento fastidioso di distorsione dell’immagine è che nelle foto ho sempre la pancia. Forse è questo l’unico aspetto negativo. Avrei voluto delle foto con meno pancia di quanta ne ho adesso.

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Lei viene spesso definito un rapper, si ritrova in questa definizione?
Faccio fatica a ritrovarmi in una cosa specifica, però non ho niente in contrario verso la definizione, soprattutto perché è una delle più elastiche in assoluto essendo la musica rap un bacino che riceve acqua praticamente da qualsiasi genere musicale. Alla fine è stato proprio il rap a scatenare in me la voglia di scrivere, di comporre, di fare strofe. Quindi si mi ci rivedo ma mi rivedrei anche in altro, me ne proponga un’altra.

Un tenore?
Si ecco, anche tenore. Un buon tenore diciamo.

Nelle sue canzoni c’è spesso una dissonanza tra testi introspettivi e basi musicali molto allegre, ballabili. Cosa cerca di esprimere con questo?
Cerco sempre di dare una fotografia, che è quella che ricevo io della realtà. Immagini di andare a vedere un concerto, l’ultimo concerto che è andata a vedere che le ha lasciato il segno qual è?

I Depeche Mode.
È una cosa che è arrivata alla fine della sua giornata, immagino che durante la giornata lei abbia avuto elementi anche molto leggeri, di intrattenimento, magari anche becero, oppure scambi drammatici, con le persone che le stavano intorno. Alla fine poi arriva il concerto dei Depeche Mode. Ecco, io cerco di mettere nelle mie canzoni tutta la giornata.

Quando parla di sentimenti rifugge dalle pose da maschio alfa, esponendo invece spesso le fragilità.
Si ma più nei primi dischi, perché all’epoca sentivo stretto il racconto che faceva la musica hip hop dell’amore e mi sembrava mancasse una sfera importante della realtà. Ma questa cosa succede sempre meno. Oggi direi che c’è un binario doppio in cui si mescolano l’alfa ma anche il beta, il gamma. All’inizio invece notavo che era un ambiente omofobo e questa cosa mi procurava una reazione. Anche perché come sappiamo non esiste nessun ambiente all’interno del quale non ci sono ci siano delle transizioni nelle scelte sessuali. Trovavo questo atteggiamento omofobo molto ipocrita.

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In una delle canzoni di «Ciao America», il suo ultimo album, si legge: «Ho provato molti modi per perdere la chiave/Ieri ho perso la mia chiave/Spero che la multa non sia grave». È stata grave la multa che ha pagato per essersi esposto su temi come l’immigrazione e la guerra a Gaza?
Quello che può succedere quando fai queste cose da artista, quando dici quello che pensi, è semplicemente che venga abbassata la penetrazione promozionale delle tue canzoni. Tutto sommato una multa molto relativa.

Quindi delle conseguenze ci sono state?
Passano meno la canzone in radio? C’è qualcuno che ti prende in antipatia o che teme di farti salire su qualche palco? Ma non posso veramente ritenermi vittima della censura. Anzi ho parlato di vittime vere e mettere me stesso in quella categoria forse annulla anche i messaggi che ho cercato di lanciare. D’altronde sono qui a fare un’intervista quindi non è che mi va poi così male.

Nel 2022 è uscita una sua canzone che si chiama «Gaza».
Quel brano parla d’altro ma si è sempre intitolato Gaza fin dal nome del file del primo progetto salvato. Detto ciò il problema di Gaza non nasce sei mesi fa, abbiamo avuto in questi anni occasione di vedere come venisse trattato con due pesi e due misure. Come le persone venissero lasciate a morire e senza la possibilità di raggiungere ospedali, di avere libero accesso all’istruzione, alla sanità, all’acqua. È una macchia pesante che l’anima dell’Occidente si porta addosso. In quanto rappresentante dell’Occidente chiaramente ho pensato a questa cosa anche in precedenza.

Che ragionamenti ha fatto per decidere se esporsi a Sanremo o meno? Si è consultato con qualcuno?
Il primo intervento è nato dall’insieme delle circostanze. Ovviamente c’era il fatto che mi sembrava impossibile che questa vicenda così dolorosa, in cui perdevano la vita così tanti innocenti, venisse trattata in maniera molto fredda, statistica e parziale da parte dell’informazione. Poi è successo che uscendo per andare in teatro ho dimenticato il telefono in camera. L’ultimo messaggio che mi ero scambiato era con la mia cuginetta che era a studiare inglese a Malta, nel centro del Mediterraneo e aveva una grandissima possibilità di arricchirsi. Probabilmente questo corto circuito di adolescenti nel bacino del Mediterraneo e questa disparità di trattamento ha generato poi quella concatenazione di frasi. Non mi ero consultato con nessuna delle persone che lavorano con me.

Nella canzone «Check in» scrive: «Senza sapere di cosa ho paura/ se del disturbo o della cura». Cosa le fa paura della situazione attuale del paese?
Mi fa paura il fatto che non ci sia la cura nel senso che non vengono prese in considerazione delle cure, delle soluzioni ai problemi gravi che ci sono. Penso all’emorragia di ricercatori universitari che dovrebbero essere il futuro del nostro Paese. Non c’è l’idea di presentare una cura, ci si lascia andare al flusso degli eventi. Quello che è successo con la sanità pubblica durante e dopo la pandemia è emblematico. Si è lasciata andare tutta quella consapevolezza che in quei mesi avevamo costruito collettivamente.

Il suo tour inizia a Parma oggi, 25 aprile. Come mai ha scelto di iniziare in questa data?
Per me questa è la data di festa per antonomasia. In un certo senso è il primo vero giorno della Repubblica. Quale miglior momento per riunirsi in una piazza, fare della musica, ballare e concentrarci su quello che abbiamo ancora di buono in questo paese?