Primo luglio 1988: a Wembley si tiene il concerto per il settantesimo compleanno di Nelson Mandela, che all’epoca è ancora in carcere. Dovrebbe esibirsi Stevie Wonder, ma per problemi tecnici, il cantante americano non riesce a suonare. Per riempire il vuoto viene chiamata sul palco una cantautrice di Cleveland di 24 anni, che ha il difficile compito di intrattenere la folla: quell’esibizione rende Tracy Chapman una star di livello mondiale. Il suo album omonimo di esordio passa dall’aver venduto 250.000 copie in due mesi a venderne due milioni in due settimane e arrivare a oltre sei milioni nei soli Stati uniti. La sua esecuzione di Fast Car e di Across the Lines è un perfetto esempio di come, in realtà, la musica possa essere una cosa semplice. Bastano una chitarra acustica, una voce delicata e la capacità di raccontare storie ispirate al mondo reale. Fino a quel momento, Tracy Chapman non ha suscitato un grande interesse nel pubblico. Con quel concerto, Chapman rimetterà il folk sulla mappa della musica popolare, in uno scenario fino a quel momento dominato dal synth pop e dall’hair metal.

TRACY CHAPMAN è un album che mostra lo scintillante talento di cantautrice di Chapman e la capacità di narrare le sue storie in modo affascinante. Le canzoni del disco sono spaccati di vita degli anni ’80 americani, gli stessi narrati da Bruce Springsteen in album come The River o Born in the U.s.a. Fast Car, come The River, descrive l’immobilità sociale e l’impossibilità di realizzare la promessa del sogno americano.
Across the Lines racconta il razzismo e le rivolte, Behind the Wall è uno spaccato di ordinaria violenza domestica. La traccia di apertura, Talkin’ Bout a Revolution, oltre ad augurarsi che le cose cambino, è quella che forse rappresenta al meglio la capacità di Chapman di catturare l’attenzione e affascinare le folle solo con una chitarra e la sua voce perfetta per raccontare storie, portando nel suo tempo le migliori doti dei padri del folk della generazione precedente, come Pete Seeger, Bob Dylan o Joan Baez. Forse, se si vuole cercare un limite a questo album, è proprio quello di non riuscire a trasmettere del tutto il fascino da storyteller dei concerti di Chapman. La produzione, giustamente, punta su un suono da band completa, con sezione ritmica e anche qualche assolo di chitarra elettrica, ma per la maggioranza delle canzoni si tratta quasi solo di decorazioni che non aggiungono nulla di decisivo a una forma che è già completa e perfetta in sé stessa.

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