Visioni

«The Sound of Metal», ossessione d’amore

«The Sound of Metal», ossessione d’amore

Cinema Da un soggetto di Derek Cianfrance, la regia di Darius Marder incontra la fisicità di Riz Ahmed, tra rabbia angelica e candore. Un uomo, una donna, il ritmo compulsivo della batteria, l’apnea del silenzio e della quiete. Visibile su Prime

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 24 febbraio 2021

The Sound of Metal suona come una riflessione esistenziale, frontale, priva di tortuosità; un’esposizione per immagini e suoni del cadere nel buio, in un mondo a parte, e del rivenire alla luce, come a rievocare il trauma della nascita, fuori dall’utero per la prima volta, e poi l’esperienza di lento, faticoso apprendistato dello spazio, del tempo, le forme, i fenomeni nuovi, mai visti, uditi prima;dello strazio stupefacente del dover esserci, tra i rumori insopportabili di un ascolto riavuto e i momenti di tregua, di contemplazione.

Gioca sul movimento, dentro e fuori, rispetto all’universo dei suoni, percorrendo il terreno delle soglie; le attraversa in continuazione per far sentire il pullulare delle cose, lo shock costante nell’andirivieni tra un’esperienza e l’altra, un valico e l’altro, il passaggio da uno stadio all’altro del mondo, come in intercapedini in cui si rischia di restare schiacciati. E suona del nome di Lou, ossessione d’amore per Ruben e ultimo appiglio per non precipitare ancora nel buio ultradenso della solitudine e delle droghe.

PENSO a un’altra Lou, che fu ragione di vita per Apollinaire mentre infuriava la Grande Guerra e prendeva corpo uno degli epistolari più intensi del Novecento, quando lui, ritrovatala in un momento che doveva risuonargli d’eternità, le avrebbe rivolto questo verso nudo, trasparente: «In francese il tuo nome risuona nella mia lingua». Ecco, l’innata intimità di un suono, di un segno che ti appartiene da sempre, appartiene alla visione poetica che hai del mondo, unica visione possibile.
The Sound of Metal è un film tutto incentrato su questa lingua sonante, assordante o muta, lucente delle cose (Baudelaire lo declinava in «linguaggio dei fiori e delle cose mute») come piano di accostamento, identificazione all’altro; quella massa fonica, acuminata come la musica degli Einstürzende Neubauten o degli Youth of Today impressi sulle magliette di Ruben, che all’inizio del film è l’appoggio solido, metallico contro la caduta serpeggiate, e dimensione in cui i due si ritrovano in stato di equilibrio delicato, fino a divenire alla fine silenzio rapito. È la voce lacerata e lucente di Lou, la sua chitarra distorta controluce, contro il pulviscolo che impazza in moto tra i i filari di fans. E il ritmo compulsivo della batteria di Ruben, tripudio di piatti e doppia cassa galoppante che incarna la sua rabbia angelica, espressa dalla superficie candida e spalancata dei bulbi oculari di un Riz Ahmed straordinario.

UN CORPO: nervoso, reattivo. Il volto, lo sguardo sgomento di chi sa di essere un tossico, prima in balia dell’eroina, ora di Lou, la medicina, come una benzodiazepina che ti dà la quiete in un istante, e allo stesso tempo t’ammorba, ti riempie di angosce, la paura afona, boccheggiante e sorda, di perderla. È intorno all’anatomia di questo animale ferito, pelle ultrasensibile a ogni colpo inferto da membra pesanti che Darius Marder su soggetto di Derek Cianfrance impernia un film esemplare (visibile su Prime), una parabola esistenziale di esseri fragili intenti ad arginare la solitudine, la mancanza furente che è in agguato lì tra l’erba mattutina, l’arrivo di un taxi, il sole che batte sul rullante, ma non si sente più niente, se non poi una stortura acuta, senza più i bassi, senza più campo.

Marder che da un certo punto in poi aveva strutturato il film entrando e uscendo da soggettive audio-video – silenzio ermetico, apnea, come il fluttuare in un interregno, o solo qualche barlume da un colpo di mano su una lamiera – quello che Ruben vede e sente dalla sua prospettiva e poi lo scorcio oggettivo, esterno della macchina da presa; Marder a un tratto, come fosse la nascita di un Frankenstein, fa emergere il cacofonico, i resti purulenti dei suoni, qualcosa come il cadavere metallico di quella che era stata la musica dei Blackgammon (Ruben e Lou) o degli Einstürzende.

È IN QUEST’ATMOSFERA rauca, gracchiante, in cui cola il pus del suono – campane distorte, che sbraitano a morto come un accordo focomelico – è ora che Ruben cerca di salvarsi la vita, come lui stesso dice a Joe, il capo di una comunità di non udenti che lo aveva invitato a cercare la quiete nella polifonia della luce piuttosto che nei suoni oramai scomparsi. Ed è ora che inizia uno dei finali più struggenti del cinema recente, che è incedere largo, elegia, e qualcosa come un muto canto: «È tutto a posto Lu’. – Cosa? – È tutto a posto. – Cosa? Cos’è tutto a posto? – Mi hai salvato la vita…».
Resta, nello slargo sparso del mattino, la raucedine ferrosa delle campane, il richiamo distorto di carcassa, della morte dall’altra parte. E, tolto il volume – sole tra i rami, cespuglio lilla alle spalle, le cime degli alberi e un raggio verde – appare, assorto, il primo giorno di quiete.

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