Presentato un anno fa alla Berlinale (miglior film nella sezione Generazione Kplus) e candidato al Premio Oscar per il miglior film internazionale, The Quiet Girl è un’opera prima eccentrica, un piccolo caso che richiama alla memoria uno degli altri titoli in lizza per la celebre Statuetta hollywoodiana, Eo di Jerzy Skolimowski.

Allo stesso modo dell’asino pedinato dal regista polacco, pure Cáit, una ragazzina di nove anni, si aggira per un mondo certamente più circoscritto ma con gli stessi occhi impenetrabili che mescolano stupore, paura, delusione e speranza. Delle sue intenzioni e dei suoi desideri sappiamo poco.

Appare in balia degli eventi e dell’arroganza di chi compie gesti ostili e spreca parole senza senso. Lei, invece, è silenziosa, parsimoniosa, indecifrabile, quasi invisibile, sofferente anche se non vorrebbe darlo a vedere, ovviamente ingenua come potrebbe essere una qualsiasi bambina della sua età.

NEL SUO PRIMO lungometraggio, Colm Bairéad si è affidato a una storia minimalista, tratta dal racconto Foster di Claire Keegan e pubblicato la prima volta sul «New Yorker».

Punto di partenza della vicenda è una famiglia numerosa, con una madre sull’orlo della depressione, costretta al ruolo di partoriente e obbligata a occuparsi della prole, e con un padre anaffettivo che perde soldi scommettendo sui cavalli. La mancanza di denaro, l’arrivo dell’estate e un’altra gravidanza, induce i due genitori a privarsi della presenza di Cáit, che andrà a vivere per un periodo limitato da una lontana cugina della madre. E nella nuova sistemazione, la ragazzina introversa scopre un luogo con delle regole diverse.

Eibhlín e Seán Kinsella sono distanti dai suoi genitori per ceto, per esperienze e, in particolar modo, per le attenzioni che rivolgono alla comunità.

Una storia minimalista. Punto di partenza della vicenda è una famiglia numerosa, con una madre sull’orlo della depressione, costretta al ruolo di partoriente e obbligata a occuparsi della prole, e con un padre anaffettivo che perde soldi scommettendo sui cavalli.

DALLA SGRADEVOLEZZA di un padre che non prova a dissimulare il disinteresse per sua figlia, si passa a un contesto nel quale vi sono le condizioni per istituire delle relazioni virtuose.

I diversi stati d’animo, i traumi vissuti dai protagonisti, i dolorosi rifiuti, la faticosa elaborazione di un lutto, la vita che scorre in una monotona quotidianità, il duro lavoro, l’amore che non è semplice da esprimere e manifestare, tutto si addensa in una trama che non fa ricorso a colpi di scena e al moltiplicarsi di linee narrative.

Bairéad ha scelto, e forse questo è il segreto del film, di privilegiare la vaghezza dei sentimenti, quella capacità di cogliere senza comprendere fino in fondo. È nei silenzi e nelle parole non dette che Cáit e i Kinsella lasciano aperta la possibilità di trovarsi in uno spazio magico.