«Il messaggio di questo film non è uno scherzo, né qualcosa che miri a spaventare. Eppure, nonostante sia uno sciamano, anch’io ho paura quando vedo la natura che si vendica». Così Davi Kopenawa, rappresentate degli indigeni yanomami, si rivolge al pubblico del Theatre Croisette dopo la proiezione di The Falling Sky, alla Quinzaine des cinéastes. Il film è un «non-adattamento» – come lo definiscono i registi Eryk Rocha e Gabriela Carneiro da Cunha – del bellissimo omonimo libro di Kopenawa, scritto insieme all’antropologo Bruce Albert (uscito in Italia per nottetempo, 2018). Di fatto, è un viaggio dentro al territorio degli indigeni, nella loro comunità, nelle loro tradizioni, nelle loro paure, e anche nella loro rabbia nei confronti dei bianchi, i napë, che continuano a depredare l’Amazzonia delle sue risorse e a portare epidemie tra gli yanomami. Anche dopo i terribili anni di Bolsonaro. Per questo si moltiplicherebbero i disastri naturali: è la risposta alle nostre azioni.

Gabriela Carneiro da Cunha, Davi Kopenawa e Eryk Rocha a Cannes

QUANDO ci sediamo per fare l’intervista, Kopenawa sta bevendo un bicchiere d’acqua. «È come per le auto: bisogna cambiare l’olio regolarmente, altrimenti si rompono. Vale lo stesso per il corpo umano, c’è bisogno dell’acqua per tenerlo pulito. È importante non toccare il cuore dell’acqua, la sua fonte, dove è pulita e pura. Non come quella che stiamo bevendo che è trattata, processata, come si fa con il cibo, la carne, il pesce…di questo dovreste sognare: dell’acqua. Eppure, le persone la mettono in una bottiglia e ne trattano il prezzo». Parla in maniera ellittica Kopenawa, c’è qualcosa di misterioso nella sua presenza, d’altronde la capacità di vedere-oltre, di interloquire con gli spiriti, gli xapiri, è uno dei temi che attraversa il film. Un dialogo che secondo lui dovremmo reimparare anche noi, a modo nostro, certo senza scimmiottare gli indigeni.

Gli chiediamo se ci sono delle criticità nel trasferire le conoscenze e il vissuto degli yanomami in forme prettamente occidentali come lo sono i libri e i film. «Ci ho pensato molto. Ma quando abbiamo fatto il libro, Bruce Albert è venuto a vivere con me, ha imparato come mangiare le banane con noi e a bere l’acqua pura. Non è stato lui a darmi la sua impostazione, sono stato io a consegnare a lui i miei pensieri. Tante persone leggono libri, so che agli adulti bianchi piace leggere, e se parlerò loro mi ascolteranno ma non sempre crederanno alle mie parole. Se invece gli indigeni scrivono, ciò che è scritto sarà creduto. Tutto ciò che è nel libro è uscito dalla mia bocca, c’è tutta la conoscenza yanomami detta nel linguaggio yanomami, e poi tradotta per far circolare il nostro messaggio. È fondamentale che il maggior numero di persone sappia cosa il nostro popolo sta passando. Per quanto riguarda il film, lo abbiamo fatto con piccole telecamere che potessero muoversi tra di noi. I registi sono venuti qui e abbiamo parlato, quello che abbiamo fatto non è cinema della città, dei produttori, in cui si filmano guerre, conflitti. Il nostro popolo è diverso: non portiamo scarpe moderne, non viviamo in case moderne. Siamo naturalmente moderati».

Davi Kopenawa
Quello che abbiamo fatto non è cinema della città. Il nostro popolo è diverso: non portiamo scarpe moderne, non viviamo in case moderne. Siamo naturalmente moderatiÈ UN ALTRO Brasile, quello degli yanomami; un modo di vivere che non può adattarsi al capitalismo, come sottolinea anche il regista Eryk Rocha. Nel ’65 suo padre Glauber, emblema del Cinema Novo, firmava il cortometraggio documentario Amazonas, Amazonas che raccontava la complessità e la bellezza della foresta. «Ci sono molti artisti nella mia famiglia, io e mio padre abbiamo lavorato, naturalmente, in tempi molto diversi. Ho scelto una strada e un linguaggio cinematografico differente dal suo, ma come un figlio di un architetto, di uno chef o di un dottore continua la pratica di chi lo ha preceduto, lo faccio anch’io, con lo stesso amore e la stessa tecnica artigianale» spiega Rocha, che prosegue: «Oltre il contenuto, il linguaggio del film è molto importante per me, ed emerge dal contatto e dalla relazione che abbiamo stretto con gli yanomami. Io e Gabriela non siamo arrivati lì con qualcosa di già pronto, o un’idea chiara su ciò che volevamo. La più grande ispirazione per noi sono stati gli yanomami stessi, la loro energia, i loro movimenti, i suoni, i linguaggi della foresta. Tutti segni che erano già lì per una grammatica da costruire. Ho anche curato la fotografia ed è stato importante perché così ho imparato come interagire con loro in un’ottica molto organica, danzando persino con loro durante le celebrazioni. Le danze, la musica, il teatro: sono molto performativi gli yanomami e tutto questo è confluito nel nostro cinema. Non è sempre un processo armonioso, anche perché noi non abbiamo provato a far entrare la loro realtà nella nostra. Per me è un film materialista perché è fisico e sensoriale, persino epidermico, ma anche molto spirituale. Spesso questi due aspetti sono separati ma credo che la cultura yanomami renda possibile tenerli insieme».

CHE LA RELAZIONE sia la chiave del film viene sottolineato anche da Gabriela Carneiro da Cunha, regista di cinema e teatro. «C’è questo momento in cui un uomo anziano ci guarda e ci parla del tempo in cui gli spiriti hanno dato i nomi ai fiumi, e poi come tutto questo è cambiato quando i bianchi sono arrivati e hanno dato i loro nomi, che non avevano alcuna ragione intrinseca. E ci dice di come i nostri antenati sono stati violenti con i suoi, e di come sono stati violenti i bianchi quando sono arrivati. “Eppure voi ora volete filmarci?” ci chiede. È stato un momento molto forte che abbiamo voluto tenere perché pone una domanda tanto a noi che al pubblico: cosa ne facciamo di queste immagini? Come faremo i conti con la nostra eredità, e come questo incontro può essere una possibilità per cambiarla? Davi nomina i luoghi dove viene portato l’oro che viene estratto dalla sua terra, nomina i mercanti che storicamente hanno derubato la foresta. E ci dice che dovremmo prenderci le nostre responsabilità perché altrimenti il cielo cadrà sulla nostra testa. E quindi noi chiediamo loro, cosa facciamo ora? È un cambio di prospettiva, un confronto con queste persone in cui non vengono considerate come vittime».