La Lega tira diritto e si lancia a tutta velocità contro un muro presentando nell’aula del Senato l’emendamento sul terzo mandato per i governatori già bocciato in commissione. Le speranze di vederlo approvato sono sotto zero e infatti l’aula respinge con maggioranza bipartisan di stampo bulgaro: votano contro tutti tranne Iv, col suo emendamento tanto fotocopia che i due testi vengono votati e affossati insieme. Il governo, come già in commissione, si era rimesso al parere dell’aula, limitando così il danno d’immagine per la plateale spaccatura. Tosato, per il Carroccio, ringrazia e spiega che la Lega ha scelto il voto, pur nella certezza di una bocciatura, «in nome dei cittadini che vogliono avere la libertà di votare amministratori capaci senza imposizioni». Gasparri, per Fi, fa il conciliante e assicura che il piccolo dissidio non incide affatto sulla compattezza della maggioranza: pareri diversi, tutti leciti. Nulla di più.

IN REALTÀ FDI HA ACCOLTO con irritazione la decisione, presa da Salvini in persona. «Spiace creare spaccature su temi che non sono nell’agenda del centrodestra. Speravamo che l’emendamento non arrivasse in aula», commenta avvelenato il vicecapogruppo Speranzon. Nel pranzo dei leader di lunedì scorso la premier aveva chiesto, con l’occhio puntato sulle difficili elezioni in Basilicata, di non dare segnale alcuno di divisione. Non si può dire che Salvini la abbia ascoltata. Al contrario, la Lega, a sorpresa, aveva portato in aula anche un secondo emendamento per cancellare il ballottaggio nell’elezione dei sindaci ove uno dei candidati superasse il 40%. L’improvvisata ha mandato fuori dai gangheri l’opposizione: «Uno sfregio alle più basilari regole democratiche» la definisce furibonda Schlein. Non è piaciuta affatto neppure al governo però, che ha chiesto alla Lega di ritirare l’emendamento e l’invito in questo caso è stato accolto, con la trasformazione del testo in semplice odg, poi approvato.

Sul terzo mandato invece Salvini è andato fino in fondo, nonostante fosse svanito il sogno di trovare una sponda nel Pd. Prima delle elezioni in Sardegna e Abruzzo la rivolta degli amministratori permetteva ancora di carezzare quel miraggio. Ma ora, dopo la vittoria sarda e il successo del partito in Abruzzo, Schlein è troppo forte per essere sfidata. Tutto quel che gli amministratori hanno ottenuto è un ordine del giorno che impegna il governo a lavorare di concerto con l’Anci e la Conferenza delle Regioni per studiare una riforma complessiva degli enti locali. Si sono dovuti accontentare.

LA BATTAGLIA LEGHISTA, peraltro, non è stata a costo zero. Diplomatici, gli alleati avevano sin qui giustificato il loro no all’emendamento solo con l’inopportunità di procedere sui due piedi con un vero e proprio blitz, senza entrare troppo nel merito. Un modo chiaro, anche se poco sincero, per lasciare almeno formalmente aperta la possibilità di accogliere il terzo mandato più avanti, dopo le europee, magari calendarizzando il ddl leghista che alla Camera propone le stesse cose bocciate ieri nell’emendamento. Ieri invece la bocciatura è stata motivata non tecnicamente ma politicamente, con Rampelli che impugnava la necessità del «ricambio generazionale», impedito da mandati eterni, e le prese di posizione apertamente contrarie sia dei tricolori che degli azzurri.

È POSSIBILE CHE SALVINI abbia deciso di procedere su una strada senza sbocchi per dimostrare a Zaia e al partito del nord, che minaccia di defenestrarlo, la sua inossidabile lealtà. È anche possibile che, sfidando il diktat della premier che obbligava a evitare lacerazioni, il leader leghista abbia voluto inviare un segnale, facendo sapere che sul Veneto il Carroccio non è disposto a cedere: «Il Veneto è e rimarrà orgogliosamente leghista», aveva dichiarato il giorno prima. Senza terzo mandato, certo, Zaia è fuori gioco ma resta la possibilità di lasciare che sia lui a scegliersi il successore, permettendo così a Salvini di lasciare la bandiera sulla roccaforte. Sempre che Giorgia Meloni si convinca a cedere e per ora nulla indica che sia su quella strada. Ma sul Veneto rischia grosso perché quella è una piazza che non il solo Salvini ma l’intera Lega non può permettersi di perdere.