Terrorismo di Stato in America latina
Intervista Parlano Paula Monteiro e Marc Iglesias, autori del documentario «Estados clandestinos». «I protagonisti sono i sopravvissuti di un gruppo di militanti uruguayani del Partido por la Victoria del Pueblo i quali, dopo il colpo di Stato del 1973 nel loro paese, vanno in esilio a Buenos Aires e là si organizzano per resistere alla dittatura uruguayana»
Intervista Parlano Paula Monteiro e Marc Iglesias, autori del documentario «Estados clandestinos». «I protagonisti sono i sopravvissuti di un gruppo di militanti uruguayani del Partido por la Victoria del Pueblo i quali, dopo il colpo di Stato del 1973 nel loro paese, vanno in esilio a Buenos Aires e là si organizzano per resistere alla dittatura uruguayana»
Il documentario Estados clandestinos. Un capítulo rioplatense de la Operación Condor è una testimonianza eccezionale sulla cooperazione poliziesca nella repressione attuata fra le dittature sudamericane negli anni 1970. Si riferisce a uno dei pochi episodi del «Plan Cóndor» con persone sopravvissute. Le quali, in prima persona, guardano nella telecamera e raccontano la propria storia. Dodici episodi. Ventiquattro testimoni. Dieci anni di lavoro. L’America del Sud sotto il tallone delle dittature militari. Migliaia di desaparecidos, assassinati, torturati. All’appello della memoria rispondono nuove generazioni di cronisti e militanti. Fra questi Paula Monteiro e Marc Iglesias, autori dell’eccellente documentario.
«I protagonisti sono i sopravvissuti di un gruppo di militanti uruguayani del Partido por la Victoria del Pueblo i quali, dopo il colpo di Stato del 1973 in Uruguay, vanno in esilio a Buenos Aires e là si organizzano per resistere alla dittatura uruguayana», racconta Marc nell’intervista con Alias. «Nel 1976, quando in Argentina arriva al potere Videla con un colpo di Stato, inizia la brutale repressione di questi attivisti, con un evidente coordinamento fra le dittature rioplatensi», aggiunge riferendosi a uno dei pochi casi, nell’operazione Cóndor, in cui alcune vittime siano sopravvissute. La peculiarità accresce il valore documentale al film, che sta raccogliendo consensi in diversi festival internazionali.
Come nasce l’idea?
Iniziammo a raccogliere testimonianze nel 2006, per un reportage o forse scrivere un libro, non per fare un film. Siamo entrambi giornalisti, e il nostro contesto è più il mondo dell’editoria che quello dell’audiovisivo. Ma accadde che qualcuno prestò una telecamera al nostro amico Miguel Presno, ed egli si offrì di filmare le interviste con l’obiettivo di conservare le testimonianze. Ci parve una buona idea – non eravamo coscienti dell’impresa nella quale ci stavamo imbarcando… – e così il progetto cominciò a prendere corpo.
Quali tappe, quali fonti sono state necessarie per il lavoro di produzione?
Ci sono voluti dieci anni per terminare il documentario. Andavamo avanti lentamente, lavorando per tappe e approfittando di viaggi di famiglia in Uruguay per realizzare le interviste e recuperare il materiale d’archivio. Le fonti principali sono le testimonianze degli intervistati: vite, ricordi, punti di vista sulla storia che hanno vissuto. Abbiamo realizzato 24 interviste vere e proprie, in maggioranza a ex militanti dell’organizzazione, sia del fronte di massa che del gruppo armato, ma abbiamo parlato anche con i figli dei desaparecidos, con familiari, giornalisti, storici. Nel documentario appaiono solo 14 di queste 24 persone, ma tutte le testimonianze sono state utili per ricostruire i fatti. A margine delle interviste, abbiamo messo insieme tutta la bibliografia che abbiamo potuto sull’argomento, trascorrendo molte ore nelle biblioteche ed emeroteche uruguayane e argentine, e abbiamo ottenuto la cessione gratuita di materiale audiovisivo e fotografico sia dal Servizio di radiodiffusione nazionale dell’Uruguay che dal Centro di fotografia di Montevideo. Abbiamo lavorato anche sugli archivi di sindacati, organizzazioni politiche, protagonisti e loro familiari. Abbiamo ottenuto documenti interni dell’organizzazione, registrazioni audio dell’epoca, fotografie e pellicole familiari.
La trama del documentario si sviluppa attraverso le voci dei protagonisti dei fatti denunciati, senza voce fuori campo né altro materiale a supporto, a parte i titoli di testa di ogni episodio…
Il documentario racconta una storia corale che costruiamo a partire dal punto di vista particolare dei vari protagonisti. Era chiaro che la forza del materiale a nostra disposizione risiedeva in quei racconti. Gli intervistati parlano degli eventi in prima persona: abbiamo pensato che inserire una figura narrante avrebbe allontanato gli spettatori da questo aspetto di vita in presa diretta. D’altra parte, nella scelta ha pesato anche il fatto che non avevamo denaro per acquistare materiale d’archivio. Abbiamo fatto di necessità virtù e ci siamo organizzati per dare alle testimonianze il maggior peso possibile.
Com’è stata, dal punto di vista professionale e personale, l’esperienza del contatto con i testimoni, faccia a faccia con la realtà delle loro storie?
Dal punto di vista giornalistico è stato un privilegio. Non bisogna dimenticare che questo è uno dei pochi episodi dell’operazione Cóndor nei quali ci siano sopravvissuti. Anzi è l’unico che presenta un numero relativamente importante di sopravvissuti. Dunque i suoi testimoni sono, tristemente, un’opportunità quasi unica per conoscere direttamente i metodi e la macchina del coordinamento repressivo. Non è un caso che le dichiarazioni di molti degli intervistati siano state elementi chiave nei processi sul piano Cóndor, celebrati in Argentina e Italia. Dal punto di vista personale è stata un’esperienza molto intensa. Nei dieci anni del progetto, con alcuni degli intervistati abbiamo stabilito un rapporto personale che va oltre il film. Uno degli aspetti più dolorosi della lentezza del processo di produzione è stato veder morire strada facendo alcuni dei protagonisti, anno per anno. E non erano vecchi. Persone, però, gravate di pesi insostenibili. Morti premature, anch’esse parte del nefasto retaggio delle dittature. È doloroso. D’altro canto, le loro vite sono esempi di dignità e resistenza. Non solo perché molti di loro avevano deciso di affrontare la dittatura a rischio della vita, ma anche perché, alla fine degli anni più bui, i sopravvissuti si trovarono soli nella denuncia della repressione e nella rivendicazione della lotta. L’Uruguay applicò un modello ricalcato sul «patto del silenzio» della transizione spagnola, un fatto che ha reso molto più difficile il compito di chi ha lavorato per il recupero della memoria.
Nella storia si intrecciano due generazioni: quella delle vittime e i loro figli, anch’essi vittime. Quali caratteristiche peculiari avete notato negli uni e negli altri?
Le interviste ai figli dei militanti desaparecidos hanno suscitato in noi impressioni fortissime. Da una parte, smontavano il discorso tanto spesso ripetuto in Uruguay: questa storia finisce quando muoiono i vecchi. E poi si produce una connessione emotiva speciale. Facciamo parte di questa seconda generazione e l’identificazione è stata diretta. C’è poi una terza generazione che, anche se non appare nel documentario, vogliamo avvicinare a questa storia. È quella dei nostri figli, oggi adolescenti. Giovani cresciuti in Uruguay o in esilio. Ci rivolgiamo anche a loro, nella speranza che le testimonianze li connettano a un passato che ha segnato la vita dei loro genitori e nonni e la loro, benché possano non esserne coscienti.
Quale accoglienza ha trovato il vostro documentario in Argentina, Uruguay e Spagna, visto il contenuto che rivela e il tema che affronta?
Finora molto positiva. Nella maggior parte delle presentazioni ci hanno ripetuto che questo documentario ha l’effetto di un cavatappi. Cioè, genera negli spettatori la necessità di raccontare la propria storia, il vissuto di quegli anni, e ci sembra un risultato molto importante. Non è facile raccontare questo tipo di fatti e ogni nuova testimonianza è un granello di sabbia nel complesso lavoro di ricostruzione della memoria. Un altro aspetto positivo è che molti insegnanti si sono mostrati interessati a utilizzare la pellicola come materiale pedagico. Ci sembra fantastico, perché il nostro obiettivo è proprio tentare di andare oltre i circoli di diffusione militanti e arrivare a un altro pubblico, soprattutto ai giovani. Per questo, dopo le presentazioni in Uruguay, Argentina e Spagna, abbiamo cominciato a mandare il film a diversi festival e siamo soddisfatti dei risultati. Ci auguriamo che un giorno Estados clandestinos possa essere trasmesso in televisione e avere mggiore diffusione.
C’è un’indubbia rivalutazione della militanza. Le vittime sono vittime ma è anche necessario richiamarne l’impegno, la lotta. Che cosa possono dire oggi, nel contesto attuale dell’America latina e della Spagna?
Le esperienze dei militanti e dei figli dei desaparecidos sottolineano la necessità di non dimenticare, di continuare a lavorare per conoscere la verità, di sostenersi e non farsi la guerra per questioni settarie. È anche un richiamo a essere attenti: i potenti hanno una grande capacità di allearsi, e di mandare all’aria qualsiasi regola non appena conviene. L’operazione Cóndor è stata una parte del piano per imporre il neoliberismo in America latina e oggi, benché le tattiche siano diverse, il piano continua.
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