Sette anni dopo la scossa che distrusse gli Appennini e uccise 299 persone restano quattro parole scritte su uno striscione: «Meno armi, più ricostruzione». È appeso a un cavalcavia lungo la Salaria, all’altezza di Amatrice. Era il 24 agosto del 2016 quando tutto venne giù: Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, le frazioni. Due mesi dopo arrivarono le scosse del maceratese: zero morti ma decine di migliaia di sfollati.
ADESSO QUATTRO PAROLE sono troppe o troppo poche a seconda del proprio punto di vista: troppo poche se guardiamo alle trentamila persone ancora senza casa, ai comuni ormai abbandonati, alle macerie che non ci sono più ma che hanno lasciato spazio soltanto a buchi nel paesaggio, perché là dove c’erano case adesso non c’è più niente. Sono troppe se invece consideriamo che tutte queste cose vengono ripetute da anni, e al di là dei solenni annunci e di qualche pur utile ordinanza di semplificazione burocratica, la vita all’incrocio tra le Marche, l’Umbria, il Lazio e l’Abruzzo continua a essere stinta dall’attesa.
Per il resto, la stessa premier Giorgia Meloni ammette che la situazione non è delle più felici. «Purtroppo la ricostruzione è ancora incompiuta, è una ferita che non si è chiusa e che fa ancora male – ha detto -, oltre quattordicimila famiglie vivono tuttora lontane dalle loro case, molti territori faticano a tornare alla normalità, diversi i ritardi da colmare e le criticità che rimangono da affrontare».
E AD AMATRICE si è fatto vedere il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci: «Tenere vivo il ricordo del sisma è un dovere morale verso le centinaia di vittime, ma anche uno stimolo a capire quella lezione: prevenire e ridurre l’esposizione alla vulnerabilità del proprio territorio. È assurdo che l’Italia non abbia ancora un organico Piano nazionale per la mitigazione del rischio sismico, materia polverizzata in decine di leggi. Stiamo rimediando anche a questa lacuna ed entro poco tempo porteremo al Consiglio dei ministri un apposito ddl».
LA GIRANDOLA delle dichiarazioni è tutta così: molti cordoglio, qualche timido annuncio, la conferma che queste zone non verranno dimenticate. Ormai sembrano finite anche le parole, e i fatti ancora non parlano da soli. Anzi.
DOPO L’ APPREZZATO commissario Giovanni Legnini, dallo scorso gennaio a gestire la partita della ricostruzione è il senatore ed ex sindaco di Ascoli Guido Castelli, colomba di FdI che gode di buona reputazione nelle Marche ma che, per ora, si sta limitando a godere del lavoro del suo predecessore, che con le sue ordinanze di riordino ha fatto quantomeno partire la ricostruzione privata. Le liquidazioni degli interventi, infatti, sono cresciute del 22% nell’ultimo anno. I cantieri aperti, dall’inizio della storia, sono stati 17.442, di questi 9.453 sono stati anche completati. Il piano delle opere pubbliche vale invece 1.1 miliardi di euro e quasi tutte le opere sono in fase di progettazione.
QUELLO CHE DAL GOVERNO sventolano come grande successo, però, è «l’avanzamento puntale» del programma «Next Appennino», finanziato dal piano nazionale complementare del Pnrr per le aree dei terremoti del 2009 (L’Aquila) e del 2016. Sulle cifre non c’è alcuna chiarezza ma, assicura Meloni, il piano «sta dimostrando che è possibile mettere a terra le risorse pubbliche per stimolare investimenti privati e gettare le basi di un nuovo sviluppo».
Il nuovo sviluppo di cui si parla riguarda il turismo, nella convinzione – salda e trasversale sin dall’immediato dopo-sisma – che il futuro sia tutto qui. È in questo senso che va letta anche la recente decisione del ministero del Turismo di stanziare 30 milioni di euro per incentivare «la competitività e la sostenibilità del settore turistico» dell’Appennino.